Ospitalità e manicomi giudiziari

La legge prevede la loro chiusura entro la fine del 2010. Ridare dignità a queste persone è una sfida anche per la comunità cristiana
1 Giugno 2010

Nei dibattiti sull’identità cristiana, e sulla “differenza” che caratterizza la presenza dei credenti nella società di oggi, si dimentica un po’ troppo spesso il tema dell’accoglienza, che invece è un elemento costitutivo di entrambi. Recentemente, l’ha richiamato il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, nella lezione che ha tenuto al festival biblico di Vicenza (Dall’ospitalità delle Scritture ad una società ospitale, 28 maggio). «È tempo di vivere sempre più le nostre radici cristiane: quando sono autenticamente nutrite dalla sapienza biblica ci sospingono a vedere l’altro come risorsa e dono e ci rendono capaci di affrontare anche i non piccoli problemi che ogni confronto porta con sé», ha detto tra l’altro il cardinale.

Una nuova sfida alla capacità di accoglienza delle comunità dei credenti – e della società in generale, da essi informata – arriva oggi dalla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ormai avviata. I cosiddetti manicomi giudiziari non sono stati toccati, a suo tempo, dalla legge Basaglia e sono uno strano ibrido: un po’ carceri e un po’ manicomi, allo stato attuale delle cose non riescono ad assolvere né i loro compiti di cura del malato mentale, né quelli di riabilitazione attraverso la pena. Al punto che vivono in essi più di 400 persone che hanno scontato la pena e sarebbero quindi dimissibili, ma restano dentro perché non si sa dove mandarli e a chi affidarli. Li chiamano “ergastoli bianchi”, e sono un vero scandalo per chi abbia a cuore il rispetto della dignità delle persone. L’iter per la chiusura dei sei Opg esistenti in Italia richiederà alcuni anni, ma in base all’accordo Stato-Regioni pubblicato in Gazzetta ufficiale il 4 gennaio scorso, entro la fine del 2010 dovranno essere dimesse 300 persone, che hanno appunto finito di scontare la pena.

Come si finisce in Opg? Perché si ha una sentenza di pericolosità sociale e una diagnosi di totale o parziale capacità di intendere e di volere. Ma queste due condizioni sono un ombrello sotto cui rientrano situazioni molto diverse: persone con diagnosi di schizofrenia o comunque psicosi gravi, casi di insufficienza mentale, disturbi della personalità, etilisti e persone a cui non è attribuibile una diagnosi codificata: spesso sono generici casi di disagio. Ci sono state anche situazioni di persone trasferite in Opg per un attacco di ansia o di rabbia mentre si trovano in carcere.

Complessivamente, parliamo di circa 1500 persone, alle quali bisogna restituire i diritti civili e, laddove la pena è stata scontata, la libertà. È chiaro però che hanno bisogno di essere curate e seguite. Solo una parte minoritaria ha una famiglia in grado di accoglierla. C’è chi ha comunque bisogno di una comunità terapeutica, chi di un centro diurno, chi di essere seguito per l’aspetto psichiatrico all’interno di una vita autonoma, che prevede, ovviamente, casa e lavoro. È chiaro che per ciascuno va fatto un progetto personalizzato, che farà capo ai Dipartimenti di Salute Mentale del territorio.

Le cifre non sono spaventose: 1500 persone divise per i circa 220 Dsm italiani, fa in media 6-7 casi che ognuno di questi deve prendere in carico, nel corso di alcuni anni. Insomma, volendo, si può fare. Ma è evidente anche che non tutto può essere lasciato ai Dsm. Il terzo settore e le comunità ecclesiali possono e devono fare molto per restituire una vita dignitosa a queste persone.

C’è, per esempio, da lavorare sui territori perché l’opinione pubblica locale impari a non averne paura. C’è da accompagnare le famiglie che accetteranno di prendersele in casa. C’è da offrire tempo e buona volontà per un supporto “tecnico” ai percorsi di reintegrazione (alcune persone avrebbero diritto alla pensione di invalidità, ma nessuno le aiuta a chiederla), ma soprattutto per un supporto umano a chi per anni è stato recluso e dimenticato.

Gli uomini e le donne che emergono dagli Opg sono stranieri in molti sensi. Vengono da un Paese per noi sconosciuto (l’Opg), con alle spalle storie a noi estranee, e parlano linguaggi aspri e difficili da comprendere (quelli che la malattia mette a loro disposizione non spesso facilmente decifrabili). Eppure l’ospitalità fa bene a chi dà tanto quanto a chi riceve, come ci insegna Abramo che fu ricompensato, con la nascita di un figlio, dallo sconosciuto che aveva accolto in casa (Gn, 18, 1-8). Nella sua lezione, il cardinal Tettamanzi ha preso le mosse proprio da questo racconto, per ricordare che «la fecondità è il frutto dell’ospitalità».

Chissà che prendere con sé anche questi poveri non porti una nuova fecondità alle nostre comunità.

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