Teologia: tradimento o liberazione?

Chi è disposto ad ascoltare in pubblico una teologia che dall’esterno appare solo come una marionetta, mossa da un’istituzione sempre uguale, sempre più vecchia ed inascoltata?
21 Ottobre 2024
  • Teologia, Raffaello, ca. 1508-1511

 

Un interessante confronto si sta svolgendo da qualche settimana su Settimana News attorno al ruolo della teologia o, per meglio dire, dei teologi e delle teologhe nella società di oggi. Invitando gli interessati a recuperare i diversi interventi, proviamo qui a farne una sintesi e a rilanciare alcune prospettive.

 

1. Una veloce panoramica

Il sasso che increspa le acque teologiche è stato lanciato da Severino Dianich (qui), che denuncia un “tradimento dei teologi”. In poche parole, come può chi fa teologia tacere di fronte alle ingiustizie e ai drammi che avvengono oggi nel mondo, spesso fomentati proprio da argomenti teologici? «Mai come oggi le grandi tensioni mondiali […] hanno posto sul tappeto questioni che toccano profondamente l’umano e, quindi, non possono non coinvolgere i pensatori impegnati nella riflessione sull’esperienza di fede nel Dio che si è fatto uomo». Questa le tesi di fondo di Dianich, che sgomento registra un “silenzio assordante”, un radicale mutismo da parte di chi, pure, qualcosa da dire dovrebbe avercelo.

A questo primo intervento sono seguite diverse risposte, che qui riprendiamo solo brevemente. Per primo Marcello Neri (qui) segnala una schizofrenia di fondo della teologia in quanto tale nei confronti del cosiddetto “mondo esterno”. Non si può, quindi, ridurre il problema alla disponibilità o responsabilità del singolo teologo, bensì ci si deve interrogare sulla complessa dinamica che nei secoli ha configurato il rapporto fra teologia, magistero e cultura/e. Una dinamica che da sé ha finito col “creare” quella distanza dal mondo che diviene quindi un problema interno alla teologia stessa e che richiede di ripensare il modo di intendere il rapporto tra Vangelo e cultura/e.

Una seconda risposta viene dall’implacabile teologo social Andrea Grillo (qui), che qui in realtà si limita (tra virgolette) a coordinare i primi due interventi, mettendo in luce come alla fine possano essere facce di una stessa medaglia. Il punto, semmai, è capire il “tipo” di tradimento che possiamo vivere nella chiesa, specie quel tradimento che spesso si traveste da tradizione, rendendo difficile la distinzione tra i due. Proprio per questo è necessario mantenere entrambi i fuochi della questione: l’attenzione a «le questioni vitali dell’esistenza comune» insieme ai «linguaggi con cui facciamo esperienza oggi di questa comunione con Dio».

Seguono quindi tre interventi che potremmo definire più teologici. Giuseppe Guglielmi (qui) richiama con chiarezza la “storicità” della teologia e di conseguenza la necessità anche da parte del magistero di ripensarsi in chiave storica: «Riconoscere il proprio storicismo sarebbe un atto di onestà: significherebbe rifuggire dalla tentazione del potere, per accogliere l’invito a vivere il Vangelo nella compagnia con le donne e gli uomini di oggi». Giuseppe Villa (qui), invece, in chiave biblica sfrutta il tema del silenzio per richiamare la teologia al tema dell’ironia, elemento essenziale spesso per uscire dal proprio isolamento e aprirsi al dialogo con l’altro. Chiude la terna un lungo intervento di Piero Coda (qui) che, per certi versi, provando già a risanare il silenzioso tradimento, traccia alcune coordinate fondamentali circa il contributo che la teologia cristiana può e deve dare a quel «pensiero che è diventato cieco». Il problema sollevato da Dianich, infatti, è un «sonoro e salutare squillo di tromba» ma per il pensiero tout court. La teologia, secondo Coda, deve «far sì che il pensiero sia radicalmente interrogato dalla croce di Cristo […]. Solo così la realtà è vista nel modo giusto e può essere assunta e trasformata». Il cuore cristologico della fede cristiana è il punto decisivo per compiere quella conversione, quel cambio di paradigma nella comprensione del mondo, che si articola in tre dinamiche: reciprocità dell’amore, a partire dagli ultimi, in una rinnovata gestione dei conflitti.

Il contributo di Francesco Cosentino (qui) cerca in parte di smarcare i teologi dalla critica di Dianich, sottolineando come al centro vada messa la considerazione che oggi la comunità sociale ma soprattutto la comunità cristiana hanno della teologia. Si tratta di un «contesto a dir poco sfavorevole» da entrambi i lati, segnati rispettivamente da indifferenza (società postmoderna) e svalutazione (comunità cristiana), che ha portato la teologia a una progressiva autoreferenzialità. È necessario, quindi, ripartire proprio “a monte della cascata”, da un risanamento del contesto ecclesiale di partenza.

Chiude per il momento questo lungo confronto una nuova ripresa di Andrea Grillo, che sul suo blog scrive una lettera al primo Dianich e all’ultimo Cosentino, ritrovando una diversa comprensione epocale della teologia, pre- e post-conciliare, che interpreta diversamente il “mutismo” della teologia di fronte al magistero. Insomma, c’è diritto di replica o meglio un rispettoso silenzio?

 

2. Accenti, criticità e prospettive

Sono diversi gli spunti e i suggerimenti che nascono da questo confronto, così come le domande che restano aperte. A conti fatti, ne emerge un quadro grigio ma del tutto condivisibile e forse pure stimolante. In questo senso vorrei aggiungere due sottolineature che ritengo fondamentali, e che forse già si intravedono dai diversi contributi.

Comincerei dall’oggetto della teologia. Come scrive Marcello Neri, alla teologia è chiesto un pensiero che «abbia realmente a che fare con la fede che vive nel tempo e nella storia». Lo stesso è affermato in altri termini da Cosentino, per il quale la teologia «non è un commento erudito della dottrina o un semplice approfondimento intellettuale della fede, ma l’esercizio di continua mediazione dell’evento cristiano nella cultura e nella storia». C’è quindi una certa convergenza su “cosa” sia la teologia e quale sia il suo scopo, e un quadro piuttosto articolato che lo offre anche l’intervento di Piero Coda. Aggiungo però che la teologia, specie se vuole presentarsi sulla scena pubblica, deve andare oltre le questioni particolari e le discussioni accademiche e tornare a parlare al cuore ma soprattutto del suo cuore, trovare il modo di ridire oggi, a tutti, il senso della teologia, dell’interrogarsi su Dio. Se da diversi fronti emerge come la società digitale, tecnocratica, economico-capitalistica ci stia facendo perdere la consapevolezza del valore di ciò che “non produce” (arte, musica, teatro, letteratura…) la teologia non fa eccezione, anzi, ha meno di altri la possibilità di far sentire la propria voce. Ebbene, questo è il suo primo passo: tornare nel pubblico, nelle piazze, non solo per prendere posizione su questo o quello, ma per legittimarsi, per dire il proprio senso, qualcosa che non si può trovare da altre parti.

Un secondo punto, decisivo, riguarda infine il soggetto. Chi fa teologia? E come può farla? Risponderei con una parola: libertà. L’intervento di Dianich prende le mosse mettendo in parallelo, forse con troppa ingenuità, i docenti universitari con i teologi, tutti raggruppati sotto l’unica cifra di “quelli pagati per pensare” (da cui, il tradimento nel momento in cui tacciono). Siamo proprio sicuri però che le due figure si equivalgano? Che anche i teologi, al pari di altri pensatori, siano investiti di una «responsabilità nei confronti della conversazione pubblica»? La teologia, semplificando le cose, a livello pubblico è percepita come una “cosa di chiesa”, anzi, una “cosa da preti”, e per certi versi non si può dire che questa sia una percezione del tutto sbagliata. La teologia in effetti (in Italia) continua a sopravvivere (spesso a fatica) sotto la cappa, sotto l’egida di una struttura clericale-episcopale che ultimamente la priva di credibilità e, quel che è peggio, di un’effettiva libertà di pensiero. Un nodo centrale che emerge dal dibattito è certo il rapporto fra teologia e magistero. Ebbene, è questo certo un luogo dove non abita la libertà. Pensiamo, di recente, alla fatica del prof. Martin Lintner nello stimolare la riflessione sulla morale sessuale; oppure ancora allo sforzo del prof. Andrea Grillo (e altri) per la ministerialità delle donne; oppure ancora – cambiando settore ma non troppo – alla gabbia in cui da anni vive in cattività l’insegnamento della religione cattolica, costretto dalle maglie imposte dalla conferenza episcopale italiana, che lo priva della stessa possibilità di un vero dialogo con “l’esterno”.

A tal proposito, è vero (come scrive Neri) che c’è un “esterno” che è solo apparente, costruito, ma questo non mi sembra generato (almeno oggi) da una cattiva teologia, bensì ancora una volta dall’istituzione stessa, da coloro che vogliono tenere il pensiero rinchiuso sotto l’ombra dei campanili. Perché la teologia non può essere pubblica, entrare nelle università statali e confrontarsi alla pari con tutte le altre discipline? Perché dev’esserci un marchio, un nulla osta, un’imposizione da parte di un potere dall’alto («a prescindere dalle competenze teologiche di coloro che lo esercitano», scrive ancora Neri) libero di vincolare la forza e la dinamica del fare teologia? Se c’è effettivamente un’indifferenza da parte della comunità cristiana verso la teologia, non la si dovrebbe ricollegare ancora una volta a una malagestione clericale ed episcopale della “materia”, che ha sequestrato l’intero scibile teologico per conformarlo a sé e alla propria visione del mondo – un mondo, tra l’altro, oggi irrimediabilmente destinato a scomparire?

Concludendo, condivido la preoccupazione originaria del prof. Dianich, ma mi domando: chi sarà disposto ad ascoltare in pubblico una teologia che dall’esterno appare solo come una marionetta, più o meno “rinnovata”, mossa dalla stessa mano di sempre, da un’istituzione sempre uguale, sempre vecchia, sempre più inascoltata? È necessaria una teologia pubblica, una teologia impegnata a dire sé e a rispondere alle domande dell’epoca in cui vive, ma lo può fare solo se libera, autonoma, radicata sulla credibilità del proprio cuore e su ciò che da sé ha ancora da dire per l’umano che a tutti è comune.

 

6 risposte a “Teologia: tradimento o liberazione?”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    Pardon… Ma mi preme indicare 2 temi x i ns teologi:
    1) ANTROPOLOGIA. ( tema caro Gil..) Ma come? invece di parlare di Dio.. l’uomo???
    2) PANPSICHISMO. nn certo xchè mi ci sto dedicando io, ma xché sta dilagando.. Cito il Tononi della I.T.T ma anche i ‘vicini’ Faggin che si sta spendendo ovunque, la stesso Gasperini..
    Ma xchè un teologo non dovrebbe occuparsi anche di NDE, esperienze fuori-corpo, ecc cioé di fenomeni “paranormali”??
    Se succederá.. saremo sdoganati… ma capisco che x uno ‘inquadrato” l’è dura!!

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Il Teologo Papà Joseph Ratzinger faceva attento l’orecchio all’ascolto e curiosa l’intelligenza all’approfondimento della Parola così rivolta all’uomo, efficace incarnata nel tempo e nei problemi della società aprendo a una luce di sapienza quei problemi di oggi/sempre, anche ad ascoltatori/lettori meno informati di cultura. Quella sua Teologia non appariva astratta storia, di un indagare sul Dio Cristiano come da un libero pensiero, ma essendo sacerdote Joseph Ratzinger si definiva umile lavoratore alla vigna del Suo Signore, perciò rivolto a aprire a conoscenza quel gregge affidatogli, missionario dunque della Verità a Che quel Gesù non apparisse solo Maestro e la sua una sua dottrina , ma del divenire Parola vivente , acqua di vita per l’uomo di ogni tempo. E’ dall’amore di un Padre per l’umanità che ha offerto un aiuto mandando il Figlio e nel Risorto avere esempio di una libertà da acquisire nuova, diversa che porta a salvezza

  3. Antonio Staglianò ha detto:

    Se la teologia come scienza e sapienza corrisponde alla fede, l’esilio di cui soffre la teologia nell’agorà pubblica è l’emarginazione della fede, la progressiva esculturazione del cattolicesimo (parliamo di noi) dalla cultura. Qui il “tradimento” dei teologi (sottolineato da Dianich) si approfondisce e giunge al suo vero nucleo fenomenologico: è quello di aver tollerato, con la propra afasia, il generarsi in Occidente di una “fede cattolica” che ha smarrito il cristianesimo “strada facendo”. Abitando “acriticamente” (è questo un paradosso per la teologia) il metaverso illuministico che ha separato non solo il sapere dal credere, ma soprattutto il credere dal sapere della vita, perdendo la fides quae per charitatem operatur e producendo un fantoccio di fede che il razionalismo può felicemente “tollerare”.

  4. Antonio Staglianò ha detto:

    L’ultimo numero della Rivista della Pontificia Accademia di Teologia è interamente dedicato al “carattere pubblico” della teologia.
    Si deve concordare sulla distinzione tra “teologi” e “professori” di teologia: molti professori non sono davvero teologi e viceversa molti teologi non sono professori. Questo fa ben sperare nella possibilità di trovare teologi là dove non te lo aspetti, magari in “credenti” che non si rassegnano a vivere la propria fede in ritualità che non toccano la “carne” di nrssuno, nemmeno quella di chi li pratica. Sarà la teologia sapienziale a risuscitare il carattere pubblico della teologia?

  5. Paolo Gamberini ha detto:

    La casa sta bruciando e non ci occupiamo di cambiare le lampadine. Non solo la chiesa, ma il cristianesimo è in crisi. Stare ancora a discutere su queste questioni significa attardarsi nel passato. Le grandi questioni, sono altrove, non c’è più fede! Sì, ma di quella che si intrattiene ancora su questi “ma, forse, nonostante tutto, etc…”. Ad un cardinale qui a Roma per il Sinodo ho parlato del caos che si vive a Roma per il traffico, i lavori per la ristrutturazione della rete metropolitana e del giubileo, le valanghe di turisti, che stanno invadendo la città. Ci è venuto in mente come sarebbe più “evangelico” di NON celebrare il giubileo in questa forma trionfale ma liberare i prigionieri e fasciare le ferite della Umanità e del Creato, attraverso gesti profetici, per tutta la durata del 2025. Dando anche un posto in un autobus zeppo di persone a chi deve correre al lavoro.

  6. Roberto Piva ha detto:

    Interventi molto razionali e azzeccati che condivido pienamente anche se sarebbe importante arrivassero agli orecchi ma soprattutto al cuore dei nostri vescovi. Ci troviamo purtroppo con una realtà clericale (appunto perché clericale) perlopiù ottusa e sorda che non si sa come sanare questa malattia. Comunque grazie per queste vostre considerazioni, alla fine ” la goccia scava la pietra” (speriamo).

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