«Perché serve un nuovo approccio formativo? Quali dimensioni vanno implementate?» – così concludevamo la prima parte della nostra riflessione.
Ora, un rapido sguardo al panorama di quanto offerto dai nostri territori consente di intuire una direzione importante del cambiamento richiesto. Emerge la tendenza prevalente (anche se non esclusiva) verso proposte di stampo spiccatamente intellettualistico, che si sviluppano nella preoccupazione di trasmettere contenuti, con una didattica frontale e con metodi in cui – tranne in ambito accademico – la valutazione degli apprendimenti è quasi del tutto assente: una sorta di riduzione della formazione a in-formazione.
Se la dinamica frontale e l’aspetto contenutistico restano, come già visto, importanti, un’autentica formazione alla sinodalità richiede quindi un approccio ampio e una seria progettazione, che si radichi su una presa d’atto dei bisogni di chi intraprende il percorso e che integri, insieme alla dimensione intellettivo-razionale, anche le dimensioni estetico-affettiva e pragmatica, e le abbracci originando non semplicemente una conoscenza teorica, ma un’esperienza.
Etimologicamente, questa parola deriva dal latino ex-perièntia, da ex-pèrior che indica tento, provo di nuovo (origine greca peirào). Il rimando implicito è all’incontro con una realtà non immediatamente a disposizione, ma che è suscettibile di essere appresa dalla coscienza. Viene evocata inoltre un’immersione personale nell’azione, reiterata se necessario, per giungere al risultato atteso.
Fare esperienza, quindi, è atto complesso che coinvolge il soggetto, la persona che fa esperienza; l’oggetto, il reale stesso di cui si desidera accrescere la conoscenza, che è altro, diverso da sé.
Se la realtà cercata (l’oggetto) è la formazione alla sinodalità, questo implica che il soggetto, oltre a conoscere intellettualmente cosa questo significhi, è chiamato a operare su di sé disponendosi a un cambiamento (conversione), favorito anche dall’immersione concreta in prassi sinodali – a partire da quelle piccole e feriali che si sperimentano nelle parrocchie, attraverso gli organismi di partecipazione o anche facendo parte di un qualsiasi gruppo parrocchiale, dalla corale al gruppo catechisti. Vivendo queste prassi, non solo nelle loro positività ma anche attraverso il confronto coi loro limiti e carenze, la consapevolezza può crescere, le conoscenze e la sensibilità maturata possano trovare corpo e divenire un habitus; si realizza così un processo di apprendimento globale, un’esperienza formativa in cui il soggetto agente gioca se stesso mentre contribuisce alla trasformazione della propria comunità.
Il quadro però non è ancora completo: fare esperienza di sinodalità non significa semplicemente vivere una forma di prassi comunitaria, ma immergersi in un’esperienza cristiana.
L’eperienza cristiana si specifica in base ad almeno quattro «linee strutturali» (Moioli): il riferimento alla rivelazione, che si precisa come riferimento a Gesù di Nazareth; la mediazione biblica e sacramentale che lo veicola; il modo di viverlo, come «memoria» che rende contemporaneo l’evento cristiano; la dimensione ecclesiale che ne costituisce l’ambito di sviluppo.
Se quindi per formare alla sinodalità non è sufficiente acquisire conoscenze teoriche, non basta neppure moltiplicare le strutture, gli organismi deputati all’esercizio della sinodalità e la partecipazione ai loro incontri. Questa complessità radicale chiede un approccio capace di tenere in dialogo diverse dimensioni, teologiche, antropologiche e sociali, spirituali.
Tra le diverse dimensioni da curare, mi soffermo sull’ascolto, che costituisce sia lo sfondo antropologico che il principio regolativo della sinodalità.
“Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2,7)” (Francesco, Disc. Commemorazione).
Aprirsi all’ascolto di Dio e dei fratelli è vocazione propria di ciascun cristiano, chiamato a essere discepolo missionario (Evangelii gaudium 120). Discepolo è, per definizione, colui che ascolta e apprende da un maestro. Missionario è colui che è inviato a testimoniare quanto scoperto ai fratelli, che lo ascoltano. Le due dimensioni sono strettamente collegate e inscindibili. In esse ciascun battezzato agisce aprendosi in due direzioni, in ascolto di Dio e in ascolto del prossimo, a livello personale e comunitario.
Questa duplice apertura è resa possibile da un’azione previa, la disposizione a un ascolto che si potrebbe definire ad intra: si tratta dell’ascolto di se stessi, per chiarire le precomprensioni, lavorare per definire concretamente lo sguardo con il quale si accosta la prassi, i pregiudizi che guidano l’agire, che sono necessari e preziosi nella misura in cui sono coscienti, e passibili di essere riconsiderati, così come sono esiziali quando agiscono a livello preconscio orientando e condizionando il nostro giudizio.
Quest’apertura personale ha carattere gnoseologico e spirituale, consente di far crescere la consapevolezza dei propri doni e compiti ed è la condizione per realizzare un autentico ascolto nei confronti di altri.
L’ascolto autentico di Dio, di se stessi, dei fratelli e delle sorelle promuove infatti l’assunzione di uno sguardo realistico sulle proprie potenzialità e sui propri limiti, sui carismi propri e altrui. Aiuta ad uscire da due polarità, che collidono con la mentalità sinodale:
1. da un lato la sottolineatura (così difficile da superare) della passività del cristiano comune, chiamato semplicemente ad applicare le direttive dei pastori; si tratta di ricomprendere l’obbedienza (da ob-audire, prestare ascolto) in tutta la sua potenziale ‘attività’;
2. dall’altro l’assolutizzazione del proprio carisma (che sia laicale o presbiterale) che porta a sottovalutare i doni altrui.
Un elemento determinante per un autentico ascolto è rappresentato infine dalla diversità delle voci che dovrebbero essere coinvolte in un autentico cammino sinodale.
La differenza, infatti, è l’unica condizione dalla quale si genera vita: le voci degli sposi, capaci di esercitare il proprio ministero testimoniando come si possano vivere gli inevitabili conflitti senza trasformarli in una guerra; le voci di chi non crede, o crede in un altro Dio, capaci di sollevare interrogativi profondi sulla nostra testimonianza; le voci delle donne, indispensabili perché portatrici di prospettive ‘altre’, di un punto di vista differente, della disponibilità a ‘farsi spazio’ per accogliere l’altro; le voci di quelli dell’ultimo banco, da cui di solito non ci lasciamo raggiungere.
In conclusione, la dimensione fondamentale – implicata nell’esperienza cristiana tutta – è l’apertura all’azione di Dio nella propria storia. È la conversione, frutto della relazione di due soggetti, l’uomo e Dio: aprendosi all’ascolto dell’appello del Signore che si fa presente nello Spirito l’uomo può stringere una relazione personale con Cristo e camminare concretamente, in Lui, con i fratelli e le sorelle.
La sinodalità, allora, non è prima di tutto prassi ‘democratica’ ma esperienza spirituale, da vivere animati dallo Spirito del Risorto. Come suggerisce papa Francesco ai teologi (ma è indicazione valida per tutte/i) anche formare e formarsi alla sinodalità chiede di porsi nei confronti del reale «con la mente aperta e in ginocchio» (Veritatis Gaudium 3).
Nella rete la verità sta dovunque si costruisca e là si valorizzi insieme…. Il Santo Padre nel fare il pellegrinaggio ungherese/slovacco, ha proprio realizzato la comunicazione e a piramide e in forma rete.Ha ascoltato, insegnato portando lumi su come vivere il cristianesimo nella realtà della vita così come si presenta nei problemi da affrontare e che però è insieme anche alle altre Chiese che si fa rete solidale, concreta che costruisce il regno di quel Dio nel quale si vuole dare testimonianza di verità. Se guardiamo a quante forme di presenza crist.esistono anche nell’ambito di una città, ci si domanda perché questa ricchezza non attrae anche per fare rete anche con parrocchie, contatto arricchente gli uni con gli altri. C’è chi distribuisce il pane ai poveri, chi offre il tetto ai rifugiati, chi aiuta i senza lavoro, nella infermità e povertà estreme. Questa è la Chiesa viva esistente Parola vivente Vangelo operante rete che unisce
Grazie Assunta! Condivido molto ciò che dici. Soprattutto sulla questione dell’ascolto credo che la conversione auspicata debba portare da una forma intra ecclesiale di comunicazione a piramide ad una forma a rete.
Nella piramide la verità sta in cima e viene comunicata per discendenza. Nella rete la verità sta dovunque e va costruita insieme nellq valorizzazione di tutti.
Una sfida formativa che vale soprattutto per chi nella Chiesa fa parte del magistero.