In questa calda estate Papa Francesco ha deciso di farci l’ennesimo regalo: la “Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione”, uscita precisamente in data 17 luglio, con l’intento di riavvicinare, in un certo senso, la letteratura al mondo della fede, addirittura a quello della pastorale, visto che la Lettera stessa parte come indirizzata alla «formazione sacerdotale», e poi si rivolge a «tutti gli agenti di pastorale, come pure di qualsiasi cristiano».
E il tono fresco e confidenziale che il Papa rivolge ai suoi lettori per tutto il testo, partendo quasi in sordina nel suggerire il valore di un buon libro per l’interiorità di ogni uomo, non manca via via di aprire scenari anche profondamente teologici che manifestano sempre e costantemente il coraggio del magistero di Francesco. Con il suo impeto, tutto ignaziano, come confessa egli stesso citando appunto il suo maestro di formazione, Francesco richiama ad una letteratura, e quindi una lettura, in forma di romanzo o di poesia, che non sia esplicitamente confessionale (per intenderci i buoni testi della tradizione cristiana).
Ma soprattutto a quella dove «il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati». Quindi proprio per sviluppare quel “discernimento” dove «il lettore vive l’esperienza di “venire letto “dalle parole che legge».
Questo sguardo “nuovo” mi pare si riagganci a quel grande tema, sempre serpeggiante, che riguarda la scissione problematica tra cristianesimo e cultura, quasi che l’una danneggiasse l’altra e viceversa. Tale rinnovamento operato dal Papa appare presente però già in una certa corrente di pensiero filosofico e teologico passati e soprattutto nel lavoro e nello studio, lungo una vita, del teologo francese e padre domenicano Jean-Pierre Jossua.
Uomo del Concilio Vaticano II e massimo esponente di quella che si definisce la “teologia letteraria”, già dagli anni Settanta divenne egli stesso autore di una scrittura teologica nei suoi stessi “Diari” dove si leggono pagine di appassionata ricerca di Dio. Scomparso appena tre anni fa, Jossua viene conosciuto e portato in Italia soprattutto grazie allo studio e alla fedele traduzione del Prof. Antonio Sichera, docente di Letteratura italiana e moderna, che scrive come in lui: «la nascita della teologia letteraria non ha rappresentato […] un episodio puramente intellettuale, il frutto di una elaborazione mentale, ma l’evento di un’esistenza, di una “vita” (Une vie) in cerca di integrazione, di unità interiore».
Nello stesso saggio, dal titolo “Letteratura e teologia nell’opera di Jean-Pierre Jossua”, Sichera evidenzia come nel pensiero di questo teologo parole-chiave siano “esperienza” e “relazione”, anticipando quello che al paragrafo 30 della Lettera afferma lo stesso Papa: «Ecco, dunque, a cosa serve la letteratura: a “sviluppare” le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato. Serve, in poche parole, a fare efficacemente esperienza della vita».
Dell’importanza poi di una relazione, quella con Dio e quella con gli altri, si parla anche nella Lettera al paragrafo 31 con parole luminose: «La letteratura diventa allora una palestra dove allenare lo sguardo a cercare ed esplorare la verità delle persone e delle situazioni come mistero, come cariche di un eccesso di senso, che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine».
E ancora alcuni punti dai saggi teologici di Jossua, mostrati da Sichera, si ritrovano anche in Francesco, ad esempio nel tema di «una scelta letteraria molto selettiva, tesa anzitutto a dar voce ai grandi testi e non ai best-seller», in parallelo al paragrafo 7 della Lettera, dove Bergoglio parlando dei suoi studenti afferma: «Ma, leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e poi passavano ad altri autori. Alla fine, il cuore cerca di più, ed ognuno trova la sua strada nella letteratura».
Come pure la preoccupazione in Jossua che «i testi non vengano interrogati su aspetti marginali ma sul loro centro, sul loro cuore», che rimanda al punto della Lettera (al par. 6) in cui il papa afferma che «la letteratura ha così a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che ciascuno di noi desidera dalla vita, poiché entra in un rapporto intimo con la nostra esistenza concreta, con le sue tensioni essenziali, con i suoi desideri e i suoi significati».
E infine, i due punti più luminosi dove mi pare che il pensiero di Jossua maggiormente possa affiancarsi a quello di Francesco. Il primo consiste nell’atteggiamento di ascolto fedele al testo dove per il teologo domenicano non ci può essere «sottomissione dei testi a schemi precostituiti», a cui fa eco Bergoglio al paragrafo 20: «Ecco una definizione di letteratura che mi piace molto: ascoltare la voce di qualcuno».
E il secondo, ugualmente importante, si incentra sull’importanza del lettore; in Jossua «la storia dell’interprete, il suo corpo, agisce sempre nelle domande rivolte alla poesia…», mentre in Francesco questo è vero per qualsiasi lettore, non solo per chi fa teologia: «Nella lettura, il lettore si arricchisce di ciò che riceve dall’autore, ma questo allo stesso tempo gli permette di far fiorire la ricchezza della propria persona, così che ogni nuova opera che legge rinnova e amplia il proprio universo personale».
Ringraziando dunque, con gratitutidine, entrambi questi giganti, concludo coraggiosamente immaginando la gioia profonda che Padre Jossua avrebbe provato nel leggere le luminose parole del Papa, che citando C. S. Lewis nella sua Lettera (par. 18) ci rasserena ancora una volta: «Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e, allo stesso tempo, rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca, vedo con una miriade di occhi, ma sono sempre io a vedere. Qui, come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso, eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai».