Epifania: tanti modi di usare le parole (e la Parola)

Il racconto dell’Epifania ci presenta diversi modi di usare le parole, ora in modo onesto –i Magi -, ora in modo autoreferenziale –gli scribi -, ora in modo ingannatore –Erode-. Ma l’uso della parola è segno di un modo di vivere, come testimoniava Leonardo Sciascia, che nasceva cento anni fa.
6 Gennaio 2021

Nel racconto evangelico dell’Epifania emergono diversi personaggi di potere, differenti nel loro modo di porsi e di usare la parola.

Ci sono, in primo luogo, i Magi, venuti dall’Oriente a Gerusalemme, animati da una domanda profonda: «Dov’è il re dei Giudei che è nato?». È la domanda del cercatore, di colui che si mette in cammino, disposto a lasciare per trovare. Di questi misteriosi saggi, l’evangelista ci descrive anche l’atteggiamento: «siamo venuti per adorarlo». È l’atteggiamento di chi è capace di abbassarsi, di riconoscere qualcuno che è più grande di sé, tanto che, di fronte al Bambino, essi si prostrano, ammettendo la grandezza di chi sta di fronte.
I Magi, saggi e probabilmente uomini di prestigio e forse potere (anche considerando i doni che essi portano), sono capaci di fare un passo indietro, di debellare la superbia che sempre serpeggia nel cuore umano; inoltre, fanno un uso onesto, leale e limpido della parola: domandano, ascoltano, non impiegano le parole per ingannare l’altro.

Vi è poi Erode, il re che si pone all’opposto dei Magi: uomo di ricchezza e potere, teme il Bambino, ha paura di perdere la propria posizione, è disposto alla violenza per soffocare chiunque possa minare il suo trono. Uomo dell’inganno, fa un uso della parola molto torbido: chiede informazioni, mentendo sul suo scopo: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Agisce, Erode, si dà da fare, ma esclusivamente per rimanere in alto, soffocando ogni altro presunto rivale, rimanendo prigioniero della sua logica di dominio.

Vi sono poi i sommi sacerdoti e gli scribi: anch’essi uomini di cultura, dotati di prestigio e potere religioso, capaci di leggere la Scrittura nel modo esatto e di individuare il luogo della nascita del Messia… eppure, quella Parola che essi sanno interpretare non diventa vita, non si fa movimento: rimangono fermi alla lettera, chiusi nella loro dottrina, limitati alla citazione, incapaci di uscire dalla loro sapienza per mettersi in cammino verso l’umanità concreta e povera di un Bambino, forse preda della paura di perdere la loro posizione o di rinunciare alla loro certezze dottrinarie.
Scribi e sacerdoti hanno consuetudine con la Parola di Dio e sono pure abili nell’uso della loro parola: ma tra la Parola e le loro parole non c’è un legame vivo, fecondo, un legame che diventi vita.

Da ultimo, abbiamo il Verbo fatto carne che sceglie il silenzio: affidata alle cure di una donna e un uomo, la Parola diviene silenzio, piccolezza, semplicità, nascondimento: il “Re dei Giudei” che cercano i Magi non è l’erede di un trono mondano circondato da servi, avvolto in panni preziosi, tra le stanze di un palazzo. Al contrario, la sua è una nascita umilissima. Sta lì la grandezza dei Magi: capire e forse accettare che il Bambino che cercano è in una stalla, deposto in una mangiatoia, nel silenzio.

Viviamo in una società della parola fatua, della conversazione inutile e pervasiva, del messaggio continuo, dell’informazione poco curata e tendenziosa: fenomeni aggravati dalla pandemia. Molti scambiano i social come tribune, per avvelenare la comunicazione, per invitare alla divisione e all’odio. La critica costruttiva e argomentata ha lasciato il posto, ormai da tempo, allo slogan facile, urlato, detto senza contraddittorio, o all’immagine accattivante e banale, che sia in tv, alla radio, in rete… modalità che toccano anche il ‘dialogo’ concreto tra le persone… pure nei luoghi del potere, dove dovrebbe vigere il senso di responsabilità e di prudenza.

Dovremmo chiederci se le nostre parole sono vicine a quelle di Erode, degli scribi o dei Magi; se la nostra parola si alimenta di silenzio, di Parola, di rispetto, o se al contrario cede al torbido, alla bugia, alla superbia, all’arroganza, all’autoreferenzialità… e così domandarci se siamo ancora coscienti che la parola è un mezzo di costruzione della comunità e della vita.

Ricordiamo in questi giorni un maestro della parola limpida, Leonardo Sciascia, nato cento anni fa, l’8 gennaio 1921. Scrittore della ragione, della verità, della denuncia, capace di trasformare la parola in strumento di lotta alla criminalità, alla corruzione, ai soprusi del potere. Della sua poetica fondata sulla parola leale e chiara, sulla ragione come strumento di conoscenza e servizio, è testimone la sua notevole produzione letteraria e saggistica, che mi pare sia ben condensata in una celebre pagina di Una storia semplice (1989), la sua ultima fatica letteraria: qui il magistrato che conduce le indagini su un caso sospetto di omicidio incontra il vecchio professore di italiano, con cui ha un dialogo preliminare all’interrogatorio:

Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altre natura… Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
«Perché aveva copiato da un autore più intelligente».
Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passo a un duro interrogatorio.

L’uso corretto della lingua e il rispetto della parola sono segni di ragionamento corretto e di onestà: parlare bene è ragionare bene, e quindi parlare con onestà è ragionare con onestà.
Possiamo trafficare con le parole come Erode, rinchiuderci astrattamente nella dottrina come gli scribi, oppure possiamo fare un uso costruttivo e buono delle parole, come i Magi, radicandole, per chi ha fede, nel silenzio e nella Parola.

Per tutti, vale sempre la lezione di Sciascia: parlare bene, usare bene le parole è un segno di costruzione e difesa del bene comune, dall’ambito personale a quello politico.

2 risposte a “Epifania: tanti modi di usare le parole (e la Parola)”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    La parola di un Erode, di Scribi,dei Farisei, dei Magi, a queste aggiungerei la Parola di chi ama la Verità che può essere di persona semplice con degli ideali che vuole trasmettere, che crede e tanto li ama che li mette in pratica e in questo modo avviene la loro trasmissione, fatta di gesti e poche parole. Si, stiamo assistendo anche oggi a cosa produce la parola di un Erode, un potere che si rivela poggiare sull’argilla; anche quello farisaico non dura nel tempo, la verità lo contrasta, la veridicità dei fatti rivela la doppiezza degli intendimenti. La Verità esiste non vista dapprincipio, ma si fa strada ed esplode là dove c’è l’inganno. I Magi la cercavano, volevano vederla e l’hanno trovata, così come hanno supposto e evitato l’inganno di una parola compiacente e lusinghiera. L’animo semplice viene attirato dalla bella, colta, promettente parola, ma poi guarda ai fatti che legge e la’ trova.la Verità.

  2. Gianfranco Mongelli ha detto:

    Complimenti per questo scritto, ricco di spunti di riflessione interessanti sulla consapevolezza nell’uso della parola e della lingua italiana.
    Ringrazio l’amico Lorenzo per la condivisione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)