Quest’anno, tra le iniziative in preparazione alla festa di San Francesco da parte della comunità dei frati Cappuccini di Cesena, è stata singolare, a mio avviso geniale, la scelta di proporre la visione di un docufilm dal titolo “Tam Tam Basket. The dream team”. Una serata di visione e dibattito con presenti il regista, Mohamed Kenawi, il guardiano dei Cappuccini F. Filippo Gridelli e gli ex campioni Mara Fullin e Pierluigi Marzorati, due giocatori di basket italiani conosciuti a livello internazionale, appartenenti alla LIBA Italia (Legends International Basketball Association), la quale ormai da mesi interagisce con i Cappuccini ed il Comune per trovare fondi e mobili da donare alle persone colpite dalla recente alluvione.
Ci siamo ritrovati tutti riuniti, pubblico incluso, attorno alla vicenda realmente accaduta, e narrata sapientemente dal regista, di un allenatore, ex giocatore della Virtus Bologna, Massimo Antonelli, che nel 2016 si è affacciato alla degradata realtà sociale di Castel Volturno (Caserta). Qui gli immigrati sono la metà circa degli abitanti del paese, quasi tutti in condizione di “fantasmi” per lo stato, tranne che nel mandare i propri figli, tutti nati in Italia, regolarmente a scuola, permettendo un censimento solo di questa seconda generazione.
Ora ad alcuni di questi ragazzi, che Antonelli raccoglie per strada o attraverso appunto un loro “tam tam”, viene rivolto un invito da parte di questo coach esperto a formare atleti, per una squadra di basket che costituisca un sogno, quasi proibito, per chi come loro, proprio per l’estrema povertà, viene escluso da attività ricreative come lo sport.
Spinto dunque da quello che gli Americani chiamano “giving back philosophy”, ossia la volontà di “rendere” quanto di positivo lo sport ha dato a loro stessi, Antonelli con passione diviene il loro coach, li aspetta con pazienza ogni giorno perché tutti arrivano agli allenamenti settimanali a piedi non avendo mezzi, va a casa loro a montare canestri su muri semidiroccati, li accompagna alle visite mediche necessarie alla pratica di questa attività…
Insomma insegna loro a rispettare se stessi e gli altri, attraverso le rigide regole del gioco, a gestire emozioni forti come la gioia e la rabbia, a “fare squadra” senza escludere nessuno dei partecipanti, anche i più fragili. Finché, conquistati dalla bellezza di un gioco che come sostiene King, 19 anni, ” è una benedizione per me: mi sento come se fossi nato per giocarci”, diventano così bravi da volersi iscrivere al campionato nazionale, scoprendo però di non poterlo fare in quanto nel regolamento della FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) una regola stabilisce il limite massimo di due giocatori stranieri nella rosa di una squadra.
E loro, pur nati in Italia ma da immigrati, risultano tutti stranieri! Sconforto, rabbia, ma anche tanta abilità di Antonelli nel far girare la notizia sui media fino a raggiungere un onorevole che si prende il caso a cuore e aiuta a modificare la regola in questione, permettendo il loro sogno di giocare un campionato e di crescere sempre di più come squadra, che via via acquisisce una vera palestra e anche la presenza di una componente femminile.
Il regista, Mohamed, egiziano vivente in Italia dal 2000, delicatissimo nell’appressarsi al valore dell’umano in ogni sua forma, alla domanda su cosa lo avesse spinto a raccontare questa storia, sostiene di aver avuto bisogno egli stesso di individuare storie di rinascita sociale come questa e di trovare persone veramente “buone”. In questo caso parla del coach Antonelli, che decide di investire gratuitamente del proprio tempo per cambiare un pochino il mondo dal di dentro e renderlo un posto migliore per tutti. Nel film uno di questi ragazzi intervistati lo definisce infatti: “uno degli unici italiani che ci ha accolti a braccia aperte […] quasi un secondo padre”.
Anche la campionessa Mara Fullin, anch’essa presente, aggiunge di averli conosciuti personalmente questi ragazzi a Castelvolturno e di aver visto la loro gioia nel gioco, visitando la nuova palestra creata, e trovandoli emozionati e consapevoli di essere lì a costruire la loro vita anche attraverso quello sport, con le parole di uno di loro che afferma che “il basket è uno strumento per capire tante cose della vita”.
E San Francesco, quindi, come c’entra? E il “sacro triduo in preparazione” tra un pallone di basket e un regista musulmano? Se non fosse per F. Filippo vestito da frate ce lo “dimenticheremmo” quasi in questa serata multietnica e supersportiva. Personalmente penso invece di aver vissuto una esperienza di fraternità molto bella, proprio per le testimonianze ascoltate in questo commovente docufilm, con la sua evidente intenzione di “riparare la Sua casa” in un paese ad altissimo degrado umano e sociale.
Infatti quest’incontro profondo sul valore del salvare l’umano emerge richiamando il messaggio trasversale della “Fratelli tutti” che, alla fine del paragrafo primo, afferma su San Francesco: “Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui». Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.”
Ancora, non abbiamo bisogno di scomodare l’incontro del Santo d’Assisi col Sultano, per citare una volontà di dialogo come pure il rispetto della diversità dell’altro, ma possiamo fermarci al suo continuo sforzo, quale alter Christus, di avvicinarsi al più fragile dei fratelli e di parlargli col linguaggio più umile e adatto a lui, piegando la regola stessa alla volontà di integrare tutti, ognuno per come è fatto e per i limiti e i doni che ha.
E infine la sua volontà di restituire a Dio tutti i beni ricevuti non è forse in assonanza col desiderio di questi campioni di rendere la gioia che tale sport ha dato a loro, con le sue emozioni, per strappare dei ragazzi, ultimi tra gli ultimi, da un degrado sociale che pare una condanna senza rimedio?
Lo stupore per me, dunque, durante questo evento, è stato proprio scoprire come queste “citazioni” francescane fossero presenti, pur senza essere proclamate ad alta voce. Per questo forse maggiormente fruibili anche da parte di tanti che oggi vivono con sospetto certi proclami di una parte della Chiesa “ufficiale” e hanno però tanto bisogno di vedere esempi di fraternità incarnata. Ritorna il motto di un altro grande maestro dello spirito, San Francesco di Sales: “Non parlare di Dio a chi non te lo chiede. Ma vivi in modo tale che, prima o poi, te lo chieda”.