Ho letto con attenzione e interesse il primo report della CEI sui Centri di Ascolto e sui Servizi per la Tutela dei Minori costituiti nelle diocesi (SDTM), facendo tesoro delle coordinate qui indicate da Paola Springhetti.
Innanzitutto mi ha colpito l’uso di un termine desueto come quello di chierico (10 volte in riferimento ai membri dell’équipe diocesana/interdiocesana di esperti a sostegno del Servizio e 2 volte per i presunti autori dei reati). Non mi aspettavo certo l’uso di termini come prete o presbitero – evidentemente ormai considerati “modernisti” – ed infatti essi non compaiono mai, a fronte della parola sacerdote presente 20 volte (in riferimento ai responsabili/referenti dei Centri di Ascolto e dei Servizi, ai punti di forza e di debolezza di questi ultimi e ai destinatari degli incontri proposti).
Ciò mi ha portato, però, a notare che nell’unico passaggio del report in cui si parla dei (presunti) autori dei reati, sia stato scelto questo termine desueto di chierico (tra l’altro scorporato da quello di religioso) e non quello di sacerdote. Ci sarà sicuramente un motivo che non conosco, ma ciò non toglie l’effetto di rendere sfuggente l’associazione tra (presunti) reati e autore nel momento in cui quest’ultimo non sia uno dei (23) laici o dei (15) religiosi, ma uno dei (30) sacerdoti, o meglio chierici. Se a ciò accostiamo il dato secondo cui questi Centri e Servizi avrebbero avviato collaborazioni soprattutto con gli uffici diocesani legati ai giovani, alla famiglia, alla scuola e al volontariato, ma non (o solo in minima parte) con quelli legati al clero (formazione, vocazioni, etc.), qualche domanda su una certa difficoltà strutturale ad evidenziare il problema del rapporto tra sacerdoti e abusi me la porrei.
In secondo luogo – e in modo quasi speculare al precedente, mi ha colpito un passaggio del paragrafo dedicato ai ruoli dei (presunti) autori laici dei reati segnalati: «al momento della segnalazione, svolgevano i seguenti ruoli: insegnante di religione; sagrestano; animatore oratorio estivo; animatore/educatore grest o attività in oratorio; catechista; ex accolito; responsabile di associazione; direttore di Ufficio di Curia; IRC-catechista e animatore liturgia parrocchia; presidente associazione privata di fedeli; presidente di Onlus parrocchiale».
Sicuramente l’ordine dell’elenco sarà casuale, però, fermo restando che si sarebbe dovuto scegliere un ordine meramente alfabetico, non si può non notare come i ruoli di Potere (responsabile, direttore, presidente) appaiano in coda all’elenco, mentre in cima svettino figure comunque sottoposte alla responsabilità di chi ne detiene il potere di scelta: forse, allora, qualche riflettore in più su questi ruoli di Potere si sarebbe potuto o dovuto accendere.
Aggiungo a tal proposito una nota a margine, in quanto insegnante di religione. Premetto che già nel 2019, insieme al collega Massimo Pieggi, avevamo evidenziato – nonostante un certo scetticismo altrui – la possibilità di abusi commessi da insegnanti di religione come uno dei motivi che rendevano problematiche le modalità ordinarie di concorso pubblico (cfr. Il Regno – Attualità, 4/2019). Vedere, però, come primo esempio dell’elenco in questione quello di insegnante di religione (di ruolo? stabilizzato? supplente?) mi ha lasciato alquanto perplesso: chi ha deciso tale ordine? Sulla base di quali dati? Chi sono le altre figure di laici coinvolti, dato che l’elenco copre solo la metà dei casi segnalati? Oppure ci sono figure segnalate per più casi? E quali?
In ogni caso, ciò che mi lascia perplesso non è certo la (presunta) presenza di IdR tra le figure coinvolte, ma il fatto che la CEI non sia riuscita a nominare l’IRC e gli IdR neanche nella sintesi sinodale nazionale, nonostante il riconoscimento generalizzato del contributo decisivo offerto dagli IdR nell’ascolto di quei giovani che la Chiesa non intercetta più. E invece, in questo report, la parola IRC compare talmente tante volte («accompagnamento altri Irc e Irc successore», «incontri con gli IRC, incontri con responsabile IRC», etc.) che poi non ci si può lamentare se su Il Manifesto si parli in modo tranchant di «violenze compiute da preti e insegnanti di religione». Se c’è un problema specifico di abusi da parte degli IdR italiani (o se in CEI c’è un problema con gli IdR) lo si dica apertamente, altrimenti si dà ragione a Paola Springhetti quando invoca «una maggiore capacità di comunicazione».
Infine, l’età delle (presunte) vittime lascia scioccati. Che su 89 (presunti) casi segnalati, ben 12 – dico 12! – riguardino bambini/e tra i 5 e 10 anni non può essere addolcito da nessuna lettura mediata dalle percentuali («solo il 14%», potrebbe pensare qualcuno). Se poi aggiungiamo i 28 casi tra i 10 e i 14 anni, ci accorgiamo che quasi la metà dei casi segnalati riguarda età che fanno inorridire al solo pensiero. Non che i restanti 49 casi (33 tra i 15 e 18 anni e 16 oltre i 18 anni) siano più accettabili, ovviamente, ma il numero degli under 14 coinvolti lascia, ripeto, scioccati.
Forse, a tal proposito, avrebbe potuto dirci qualcosa di più poter leggere i dati relativi alle tipologie di reato scorporati per età delle vittime. Per quanto siano informazioni incandescenti e da maneggiare con cura, sapere a vittime di quale età siano stati rivolti i 24 comportamenti e linguaggi inappropriati, i 21 toccamenti, le 13 molestie sessuali, i 9 rapporti sessuali, le 4 esibizioni di pornografia, i 3 adescamenti online, i 2 atti di esibizionismo avrebbe permesso di avere un quadro più preciso della gravità della questione. Anche a questo, speriamo, si potrà rimediare quando verranno esaminate le 613 denunce inviate negli ultimi 20 anni dalle diocesi italiane al Dicastero (già Congregazione) per la Dottrina della Fede.
Così non si va da nessuna parte: non si può fare prevenzione senza prima fare verità e giustizia. Molto deludente il report della CEI. Molto deludenti i vescovi italiani. “Noi non costituiremo alcuna commissione nazionale unica composta da persone che non sanno nulla della vita della Chiesa e che sono definite obiettive solo perché non sono vescovi, né preti o credenti …. Questo metodo ha prodotto dei danni altrove e non deve essere imitato”. Le domande sorgono spontanee: non vi è proprio nulla da imparare dalle chiese degli altri paesi? E poi: quali sono i danni creati che la chiesa italiana vuole evitare? E la preoccupazione per questi eventuali danni che la chiesa può subire non dovrebbe passare in secondo piano rispetto al danno irreparabile che il sistema di potere clericale ha prodotto nei corpi e negli animi delle vittime di abuso?