Caro giornalista,
il messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2023, Parlare col cuore. “Secondo verità nella carità” (qui il testo), mi ha fatto venire voglia di porti qualche domanda, essendo io una delle poche persone che ancora crede – e fermamente – nell’importanza della buona informazione per una società democratica e giusta.
Questo messaggio chiude una trilogia: dopo quello di due anni fa dedicato all’ascolto, e quello dell’anno scorso dedicato al dialogo, quello di quest’anno è dedicato alla condivisione, che nasce dal «comunicare cordialmente». Dove cordialmente sta per “con il cuore”.
Il cuore, dice il Messaggio, va ascoltato, perché «con il suo palpito rivela la verità del nostro essere» e «questo porta chi ascolta a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda, al punto da arrivare a sentire nel proprio cuore anche il palpito dell’altro». Cosa significa “ascoltare con il cuore” per te giornalista, che fai una professione dai più considerata cinica e bara?
COSA C’È NEL CUORE
La mia domanda nasce dal fatto che nel linguaggio comune il cuore è considerato il luogo in cui hanno sede le emozioni. E le emozioni possono essere negative, possono essere esattamente quelle che ci impediscono di incontrare l’altro. Possono essere quelle che si sfogano in tutte le variopinte forme di hate speech che fioriscono sui social. Possono essere quelle che spingono i tifosi di diverse squadre a scontrarsi attorno agli stadi e sulle autostrade. Ma possono anche essere quelle che vengono sfruttate in tante trasmissioni televisive per creare conflitti e alzare l’audience.
Un titolo “esemplare” del quotidiano “Libero”
Allora a me stesso chiedo: basta ascoltare il proprio cuore per riuscire a fare i conti con queste emozioni e incanalarne diversamente? O forse la domanda più corretta è: che cosa vuol dire ascoltare il proprio cuore, quando nutre queste emozioni? Lo chiedo a me stesso, ma lo chiedo anche a te, che per mestiere guardi le cose fuori, più che quelle dentro di te.
Poi ci sono anche le emozioni che si intrecciano alle ideologie e che vengono usate per sparare i titoli violenti e razzisti di testate come “Libero” o “Il Giornale”, e le parole di politici che sembrano aver fatto della guerra alle opposizioni o ai migranti o alle Ong lo scopo della loro vita pubblica. Anche in questo caso la domanda è: come fai a mantenere il tuo cuore immune da questi micidiali mix, a riconoscere i luoghi dove si annidano, a raccontarli senza farti strumento della loro diffusione?
L’OBIETTIVITÀ E LE CAUSE GIUSTE
Il messaggio sottolinea anche che l’appello a parlare con il cuore «interpella radicalmente il nostro tempo, così propenso all’indifferenza e all’indignazione, a volte anche sulla base della disinformazione, che falsifica e strumentalizza la verità.» Ma nelle scuole di giornalismo vi insegnano che il giornalismo serio, quello di cui ci si può fidare, è obiettivo e imparziale. Chi si fa coinvolgere, finisce con l’essere di parte e diventa incapace di raccontare la “verità dei fatti”, lasciando fermandosi alla propria interpretazione e al punto di vista proprio (o dell’editore). E magari ottiene un millesimo di share in più, perché ha fatto leva sulle emozioni di chi legge/vede/ascolta, ma dà così spazio proprio alla disinformazione e alla propaganda. Dunque, come riesci ad ascoltare il cuore – tuo e degli altri – e a rimanere obiettivo?
È vero che esiste anche l’informazione sociale, che sposa cause giuste – quelle degli ultimi e di chi vede negati i propri diritti – denunciando problemi e ingiustizie e quindi in qualche modo facendo una scelta: quella di stare dalla parte dei poveri. Scelta che non esclude che si possa fare un giornalismo serio e approfondito. E allora torna la domanda: come si barcamena la tua coscienza professionale tra la necessaria obiettività e la necessità, a volte, di schierarsi dalla parte giusta?
Insomma: che cosa significa per te giornalista “parlare con il cuore”? Che cosa è la carità, professionalmente parlando? Vuol dire dare spazio al “proprio” cuore, o è piuttosto un processo complesso, che coniuga sensibilità e consapevolezza, emozioni e razionalità, imparzialità e ricerca della giustizia, in una continua, faticosa negoziazione? Dove è il limite oltre il quale la partecipazione alle storie degli altri e alle giuste cause diventa perdita di obiettività e mistificazione?
UN PARLARE AMABILE
Vero è che la scelta del tono della comunicazione non è mai neutro e che, di qualunque cosa si stia parlando, lo si può fare con un linguaggio guerrafondaio o con un linguaggio dialogico e costruttivo. Il messaggio sottolinea la necessità di un «parlare amabile», che può aprire «una breccia perfino nei cuori più induriti». E cita due ambiti – peraltro strettamente collegati – in cui questo «parlare amabile» diventa determinante: quello della convivenza civica, «dove la gentilezza non è solo questione di “galateo”, ma un vero e proprio antidoto alla crudeltà, che purtroppo può avvelenare i cuori e intossicare le relazioni»; quello dei media, «perché la comunicazione non fomenti un livore che esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in cui vivono».
Molte delle vostre testate amano i linguaggi armati, che armano l’interlocutore: basti pensare a certi titoli o a certi interventi nei “salotti” televisivi fatti da personaggi che sono stati invitati proprio per infuocare la discussione. E uccidere il dialogo.
LA VERITÀ PUÒ FAR MALE
È vero anche che spesso il fatto in sé di dire una verità è considerato dall’interlocutore, che non vuole sentirsela dire, come un atto violento. «Non dobbiamo temere di proclamare la verità, anche se a volte scomoda, ma di farlo senza carità, senza cuore», specifica il messaggio. Ma riconosco che a volte per voi dire la verità è proprio difficile, come ben sanno, qui da noi, quelli che vengono regolarmente denunciati dai personaggi pubblici di cui si rivelano scorrettezze o corruzione o, nei Paesi in cui non c’è libertà, quelli che finiscono in carcere, e magari torturati o uccisi, per avere detto la verità. Insomma, capisco che non sempre la verità suscita amicizia e dialogo, neanche se usi un linguaggio corretto. In questo ti do la mia solidarietà e spero che tu tenga duro.
«Per poter comunicare secondo verità nella carità, occorre purificare il proprio cuore», avverte il Messaggio. Affermazione indiscutibile, cui si potrebbe aggiunge che questa “purificazione” non avviene mai una volta per tutte, ma che è un lavoro continuo che si fa su stessi. Vale per me, semplice cittadino, ma anche per te. Anche se, verrebbe da dire, bisognerebbe che anche le strutture in cui i giornalisti lavorano si purificassero un po’, perché io credo poco agli eroi solitari e penso che il cambiamento lo si faccia tutti insieme. Ma questo è un altro discorso…
Buon lavoro, da un cittadino che sa di avere bisogno di te.
Ma perche’ non citate il titolo del “Manifesto” quando eletto Ratzinger “Pastore tedesco”
Oppure i titoli volgar ed ad effetto sono solo dei giornali di destra mentre quelli di sinistra o di estrema sinistra sono “amabili” ?Potrei fare un elenco di titoli assurdi di Repubblica, Il Fatto Quotidiano, il Manifesto .
Ormai il cittadino medio non crede piu’ a nessun giornale e pensa che i giornalisti siano solo dei venduti o degli ideologi .
Il titolo del manifesto mi sembrò estremamente significativo perché teologicamente perfetto, riconoscendo al teologo Ratzinger una posizione chiara nella difesa dell’ortodossia cattolica.
Era un titolo “politico”, scritto probabilmente da uno dei tanti ex giovani di sinistra cresciuti nell’alveo cattolico e profondamente critici nei confronti di una chiesa che aveva tradito ancora una volta, le loro aspettative.
Di Sallusti&c non so cosa dire…