Camminare insieme nella periferia romana

In che modo un progetto di orientamento può diventare un momento prezioso di ascolto (sinodale) della realtà giovanile...
17 Dicembre 2021

I luoghi costituiscono pezzi di identità collettive e di tradizioni che però non si consegnano mai definitivamente a un significato univoco, ma vivono un rapporto dialettico, che a volte può diventare perfino di oblio, con la quotidianità e l’avvicendarsi delle generazioni. Per questo, nonostante il carico di storia, significati e tradizioni, Roma non solo non è una città eterna, nel senso di statica e fissa, ma semmai una piattaforma girevole che fa incontrare e incrociare persone e significati che vengono continuamente ridefiniti dal tempo, da chi la vive, da “una stanzetta umida, una stufetta elettrica nell’incazzatura di una metropoli”. Sorrentino in La grande bellezza ha fotografato uno spaccato di Roma; nello stesso anno, Gianfranco Rosi in Sacro Gra, ne ha fotografato un altro. Due realtà agli antipodi, ma che, al tempo stesso, sono la stessa città.

Chiedere agli studenti di riconoscere e mappare i luoghi del quartiere – come alcuni dei miei hanno appena fatto in un progetto PCTO legato alla mappatura emotiva del quartiere Tufello a Roma – significa anche provare a riannodare o costruire fili con il territorio, riscoprirne la storia: una storia che dal Fascismo attraversa la Seconda guerra mondiale (Ladri di biciclette), arriva alle lotte per la casa, all’opera di don Gerardo Lutte (cacciato dai salesiani per le sue lotte a favore dei baraccati di Prato Rotondo), a Valerio Verbano, alle iniziative istituzionali, ai murales, ai luoghi di ritrovo privati e imprevedibili. Significa anche entrare in relazione con gli attori che ci lavorano, magari senza clamori, ripensare la propria identità politica non come mera ripetizione di slogan orecchiati qua e là, ma ricollocarsi all’interno di un contesto reale, prendendosene cura.

In questi laboratori di scrittura creativa, che poi confluiranno in un podcast, sono uscite cose molto interessanti: ad esempio, in un laboratorio spassoso, ispirandosi a Perec, gli studenti hanno composto un nuovo inventario di luoghi e persone del Tufello. Ma ci sono anche tanti elementi su cui un educatore deve riflettere.

L’attività conclusiva consisteva nel costruire una storia, utilizzando i parametri classici (individuazione del protagonista; situazione di partenza; complicazione; epilogo). È emerso un quadro preoccupante non solo per la scarsa qualità perfino ortografica della scrittura, ma soprattutto per i contenuti che potremmo definire, in senso lato, “politici”. Senza entrare nel dettaglio delle storie, mi hanno colpito tre elementi.

Il primo è che ogni discorso pubblico viene innescato e, al tempo stesso, disinnescato derubricandolo a battuta. Per esempio: un gruppo ha immaginato che il 99% dell’umanità si sarebbe estinto a causa di una malattia chiamata LGBT. Quando il tutor ha chiesto di giustificare questa scelta, l’unica risposta è stata: “era solo una battuta!”. Il tema non è la battuta o presunta tale, ma il perché dei ragazzi sentano il bisogno di farla o, nel migliore dei mondi possibili, “trollare” un’attività istituzionale, salvo poi nascondersi dietro l’ormai classico, in pieno stile Pio e Amedeo, “eh, ma non si può più scherzare su niente”. Non sono stati gli unici. Nella storia di un altro gruppo a un certo punto sono comparsi Er Faina e l’utilità del catcalling. C’è molto lavoro da fare sui temi non dico dell’intersezionalità, ma dell’inclusività, a partire dalla capacità di dare forma ed espressione a un malessere che i cambiamenti sociali generano non solo in loro, ma che è difficile da affrontare se ci si sottrae al discorso razionale, rifugiandosi nel mero e pre-razionale “cazzeggio giovanile”.

Questo introduce il secondo elemento: quale universo culturale abitano questi ragazzi? L’universo culturale è sempre universo politico, perché orienta e struttura le proprie idee e poi la partecipazione alla collettività. Le allusioni, le citazioni sono tutte estrapolate dall’immaginario della serialità (Romanzo criminale, Suburra, Narcos) e da una subcultura social che si avvita su assi tematici come l’ignoranza, la pastorizia, le favelas, il degrado. Tutti i gruppi invece sono stati completamente impermeabili, nello stile e nei contenuti, all’universo scolastico che pure hanno frequentato più di dodici anni. Questo dice non solo che la scuola ha così tanti problemi strutturali da non riuscire più a incidere nella vita degli studenti, ma soprattutto che rischia di diventare non più una risorsa, ma a sua volta un problema. Essa, infatti, rischia di trasformarsi in un luogo, soffocato dalla burocrazia, in cui si conserva stancamente un sapere stagnante che, non riuscendo più a far interagire la cultura con il vissuto degli studenti, diventa funzionale al mantenimento di strutture di potere (o, da un punto di vista teologico, strutture di peccato) nelle quali si innestano e perfino si legittimano certi comportamenti.

Il terzo elemento è quello più prettamente politico, nel senso di cittadinanza, ma anche di consapevolezza, responsabilità, formazione di una coscienza civile. In un periodo in cui un po’ acriticamente si è salutata la stagione delle occupazioni come la primavera di un ritrovato protagonismo giovanile, la quotidianità orfana di comunicati stampa restituisce un’immagine meno affascinante ma più realistica della comunità studentesca. Una comunità insofferente alle regole (non vi dico quante volte ho dovuto richiamare al corretto uso della mascherina), poco inclusiva (uno degli insulti più ricorrenti con cui gli studenti si salutavano o recensivano le prestazioni dei compagni era: “sei un down”), legata a stereotipi di genere e scollegata non solo dalla storia del territorio, ma anche da quelle tematiche che, a livello mondiale, proprio le nuove generazioni stanno portando avanti; su tutti, il cambiamento climatico.

Non a caso, le conclusioni di queste storie senza capo né coda non potevano che essere sconclusionate, banalmente risolte con l’escamotage del sogno (3 gruppi su 5), o anonimamente edificanti. Il protagonismo politico giovanile mondiale, la multiforme realtà di altre classi del medesimo istituto aiutano a non assolutizzare il giudizio, allargando gli orizzonti. Ma abitare un territorio significa anche riconoscere le persone nella loro concretezza storica e nelle loro contraddizioni, senza nasconderle dietro slogan affascinanti, ma disincarnati e puramente ideologici.

 

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