Impastarsi di vita

Siamo chiamati a superare la tentazione di vivere appartati, immergendoci nella vita, perchè l'immobile è sterile, come diceva Calvino ne "Le città invisibili".
8 Marzo 2020

C’è una tentazione ricorrente nel cammino cristiano, tentazione che nasce a volte da un desiderio umano legittimo, come esclama Pietro di fronte alla Trasfigurazione di Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». È la tentazione di stare appartati, di rimanere sulla montagna: tra noi stiamo bene, ci capiamo, condividiamo sensibilità e valori, aspirazioni e gusto. Tra noi, qui in disparte, la vita è più facile: sentiamo meglio Dio, ci sembra che lo vediamo agire con più chiarezza, ci sentiamo più vicini a Lui.

Aspirazione buona, se ci coglie e ci permette ogni tanto di riposare un po’, secondo l’invito del Vangelo «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Ma questa è la tregua che rigenera, la pausa che fortifica: siamo chiamati poi ad andare per le strade del mondo, siamo chiamati a impastarci di vita, senza avere timore di essa, perchè il cristiano sa che il suo ‘comandamento’ è quello del Vangelo di questa domenica: «Alzatevi e non temete». Dobbiamo alzarci, metterci in cammino senza provare paura, senza diffidare: là fuori, nella vita che scorre ai piedi del Tabor, lo Spirito è già presente. Quell’umanità che a volte può farci timore, perché magari ha costumi e stile e opinioni diverse, è amata da Dio e noi dobbiamo immergerci in quell’umanità, non starne in disparte. Essere nel mondo senza essere del mondo: è questa la perenne vocazione del cristiano. Impastare le nostre mani nella vita che muta, nelle sue contraddizioni, nei suoi drammi, nelle sue gioie, portando la nostra testimonianza di figli di Dio.
Perché se facciamo dell’immutabile un idolo perdiamo la vita: ciò che si custodisce immobile, ciò che si rinchiude gelosamente perché ritenuto perennemente stabile, ciò che è riposto per paura del cambiamento non partecipa della vita dello Spirito e diviene sterile. «Alzatevi» è l’invito a varcare la soglia del timore.

Sono concetti che aveva ben capito Italo Calvino, che ne Le città invisibili, mirabile capolavoro della sua creatività (1972), ci presenta la città di Zora:

Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge Zora, città che chi l’ha vista una volta non può piú dimenticare. Ma non perché essa lasci come altre città memorabili un’immagine fuor del comune nei ricordi. Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non mostrando in esse bellezze o rarità particolari. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare una sola nota.

Zora è indimenticabile perché non può mai cadere nell’oblio un solo suo particolare; essa è fissa nella memoria, sempre uguale a se stessa. Zora contiene il sapere, e chi sta a Zora apprende quel sapere immenso, ma sterile, perché lontano dalla vita.

Cosicché gli uomini piú sapienti del mondo sono quelli che sanno a mente Zora. Ma inutilmente mi sono messo in viaggio per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata.

La città immobile e immutabile, la città che non conosce il fluire della vita, è infeconda: non genera vita, scompare e così, paradossalmente, viene dimenticata.
Mi pare un saggio ammonimento: allontanarci dalla vita non produce frutto. Siamo chiamati ad alzarci e scendere dalla montagna, superando la tentazione di fissare una tenda che diventi dimora fissa. La tenda, per sua natura, è nomade.
Dovremmo ricordarcelo, ogni qual volta siamo presi dalla nostalgia di un Tabor nostro, appartato e immutabile: l’invito è sempre quello di scendere per la strade polverose, sporcarsi i piedi e trovare lì l’agire dello Spirito.

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