Sinodo sulla sinodalità: allargare la missione o ripensarla?

Nell'ottica sinodale il "missionare" insieme consiste in una mera "chiamata alle armi dei riservisti" o nella non più rinviabile sperimentazione ai margini?
12 Dicembre 2023

Ad un mese dalla chiusura della prima sessione (2023) del Sinodo sulla sinodalità, smaltita l’indigestione di contenuti sinodali, possiamo forse riprendere il ragionamento avviato sulle “mastodontiche” schede di lavoro allegate all’Instrumentum laboris. Sono convinto, infatti, che in esse ci sia già molto (se non tutto) di quello che hanno poi sintetizzato i lavori sinodali, sia a livello di punti fermi acquisiti, sia relativamente ai nodi non risolti. Dopo aver affrontato la questione della comunione, passerei ora alla visione della missione  che emerge da tali schede (B.2): più una chiara ambivalenza (di cui, però, si ha scarsa consapevolezza) che «una molteplicità di dimensioni, da armonizzare [articolare] e non opporre» (il minimo sindacale, a mio avviso). Aggiungerei, anzi, per chi fosse pronto ad obiettare che bisognerebbe accontentarsi del tentativo di recuperare questa «molteplicità», che il venir meno avvenuto negli ultimi decenni di tale poliedricità (per dirla con Francesco) è strettamente legato alla difficoltà di cogliere proprio l’ambivalenza che vorrei mettere in luce.

Da un lato, infatti, la «chiamata» alla corresponsabilità e alla sinodalità dell’«impegno» missionario – inteso come un camminare insieme che potremmo tradurre con un “missionare insieme” – sembra più una sorta di chiamata alle armi dei riservisti e delle riserviste o delle nuove leve, soprattutto in ambito lavorativo e socio-politico, che una rinnovata comprensione della missione oggi. Più una estroversione d’impronta ancora wojtyliana-ratzingeriana per portare (o donare, se vogliamo) il già noto dell’ordine «secondo Dio» laddove nelle «cose temporali» non è noto (ad es. nell’ambiente digitale), che un qualcosa capace anche solo di assomigliare a quanto esposto, ad esempio, da Paolo Trianni nel presentare il nuovo programma annuale della facoltà di missiologia della Gregoriana:

«nel suo incontro con l’altro, (…) nell’andare verso l’altro, il cristiano può scoprire sé stesso e la propria verità, anche perché nell’altro si incontra sempre l’Altro»; in altri termini, vi è «presenza dello Spirito e di semi del Verbo anche fuori della chiesa», per cui quest’ultima «realizza che non è chiamata solo a insegnare, ma anche a imparare. Capisce che non ha solo qualcosa da dare, ma anche qualcosa da prendere, anzi da com-prendere», in un «processo di accrescimento» nel quale «maturare un’identità più ampia e una maggiore consapevolezza delle verità cristiane», «una migliore comprensione dei misteri della fede e della loro dogmatizzazione», «una più profonda appropriazione dei significati reconditi contenuti nella parola di Gesù», uno «scoprire nel Vangelo ricchezze insospettate».

Dall’altro lato, invece, vengono esplicitamente riconosciute la «consapevolezza dei limiti delle comunità cristiane e (…) dei loro fallimenti» (soprattutto a livello di «relazioni tra uomini e donne»), insieme alla «mancanza di chiarezza e di una comprensione condivisa del significato, della portata e del contenuto della missione» nel nostro tempo. Come se il problema prioritario, appunto, non fosse quello di chiedersi «quanto la Chiesa è oggi preparata e attrezzata per la missione di annunciare il Vangelo con convinzione, libertà di spirito ed efficacia», ma quello di creare «luoghi di confronto e dialogo (…) tra le diverse prospettive, spiritualità e sensibilità» ecclesiali sulla missione: nei quali poi fare «formazione» (rinnovata nei curricula) e «sperimentazione», consapevoli che «il movimento di uscita da sé» per «costruire con gli altri» è «una via per affrontare questa incompletezza».

Solo in questo secondo senso possono non apparire scontate – o destinate ad esito già predeterminato – l’esigenza di «rinnovamento» della «qualità della predicazione» e del «linguaggio della liturgia» – entrambe «luogo di annuncio» sì, ma la cui efficacia è legata ad una «corretta inculturazione» – e la sottolineatura della «prossimità»/«carità»/«cura» quali aspetti fondamentali dell’evangelizzazione (senza cui quest’ultima sarebbe solo una contro-testimonianza) – ad esempio aprendo «luoghi di servizio gratuito (…) in cui i bisogni umani fondamentali possono trovare risposta, le persone si sentono accolte e non giudicate, libere di fare domande (…), di andarsene e di ritornare». In effetti, come rinnovare l’inculturazione e come creare luoghi di libertà profonda, se il movimento missiologico avviene unidirezionalmente da una Ecclesia che si sa già docens ad una Ecclesia che non può che essere solo discens?

Sappiamo poi che dall’ascolto del popolo di Dio è emerso con forza il «desiderio» di una «Chiesa “tutta ministeriale”». Una Chiesa nella quale ogni battezzata/o, in quanto profeta-sacerdote-re “in-per” Cristo, dovrebbe partecipare con «pari dignità» alle attività della Chiesa locale (iniziazione cristiana, riflessione teologica, processi di discernimento, etc.); svolgendo, poi, da persona corresponsabile (e non più solo collaboratrice) il «ministero» (ordinato, istituito, straordinario, di fatto) a cui è stata/o chiamata/o e riconosciuta/o dalla Chiesa locale stessa. Anche qui sono convinto che il senso della realizzazione di tale desiderio dipenderà molto dal lato dell’ambivalenza in questione su cui metteremo l’accento: quello della mera (seppur importante) «assunzione comunitaria della missione» e «partecipazione peculiare dei Laici [e Laiche] all’evangelizzazione nei vari ambiti della vita sociale, culturale, economica, politica»? Oppure quello (per me prioritario) della lettura dei «segni dei tempi» in ogni «contesto», magari colti «ai margini» della vita ecclesiale (su quel «“margine profetico”» in cui è notevole la «pluralità» del «contributo» femminile), e alla cui «luce» – o in «risposta» ai quali – immaginare, creare, sperimentare, promuovere, valorizzare, sostenere (con «forme di riconoscimento» anche «remunerative») ministeri antichi (come il diaconato) e «nuovi» – anche femminili! – «a servizio del mondo»?

È chiaro che – per rispondere ad una preoccupazione emergente nelle schede di lavoro – nel primo caso (quello della chiamata alle armi dei riservisti/e), la «correlazione» (in Cristo – LG 10) tra Sacerdozio comune e ministeriale, tra Ministero ordinato (soprattutto se episcopale) e battesimale, difficilmente nei momenti di disaccordo potrà evitare forme di «opposizione», «competizione» o «rivendicazioni» e «tensioni»; mentre invece, nel secondo caso (quello del discernimento comunitario di cosa è missione oggi), è più probabile che tale «correlazione», nonostante e oltre questi inevitabili momenti, possa evolvere verso quelle forme di «complementarietà», «sussidiarietà» e «“sana decentralizzazione”», necessarie per pensare in modo «adeguato alle sfide del nostro tempo» e, quindi, non «lontano dalla vita e dai bisogni delle persone».

La stessa promozione, valorizzazione e sostegno delle novità ministeriali, soprattutto «in ambienti particolarmente ostili e impegnativi» o «problematici», assumerà carattere e senso diametralmente opposto a seconda del punto di vista assunto: nel primo caso, sarà forte il rischio che si finisca per destinare le risorse esistenti a forze sempre più esigue con il solo scopo di rimpinguarle per resistere o sopravvivere in un territorio sempre più vasto e sconosciuto; nel secondo caso, tali risorse potrebbero invece essere investite per rafforzare le buone pratiche – o meglio le esperienze pastorali – di coloro che da anni, se non decenni, sono già in avanscoperta fiduciosa dell’ e nell’opera dello Spirito. E perciò, forse, da ascoltare (per imparare) di più e meglio.

In definitiva, anche in questo ambito della missione, dovremo verificare nella relazione di sintesi dell’assemblea sinodale di ottobre 2023 se e quanto i padri e le madri sinodali si siano limitati a segnalare (la pur importante) necessità di coinvolgere più battezzate/i nella missione o, invece, anche e soprattutto la (per me ancor più fondamentale) necessità di re-immaginare teologicamente e ri-strutturare canonicamente la missione oggi.

 

Una risposta a “Sinodo sulla sinodalità: allargare la missione o ripensarla?”

  1. Francesca Vittoria vicebtini ha detto:

    In sintesi si vuole vedere nei fatti Il Sinodo all’opera. All’ascolto, silenzio meditativo, lo Spirito Santo che una suora ha descritto esserci ma che non si vede”, invece si veda. Se un fedele, cittadino comune, immagina uno Spirito che c’è ma non si vede, evangelizzare sembra una impresa dove tutti si credono in proprio raggiunti dall’Alto. Effettivamente l’Opera e dall’Alto ma agisce nelle persone preparate. Non c’è niente di nuovo perche così e già da sempre, soltanto che dove c’è la Fede e più facile, oggi questa latita, peggio trova una superiorità e condiscendenza a porre mente a credere in quanto l’individuo e già pieno di se. Cosa dire di proposte per inculturare giovani a riconoscere necessaria una educazione del proprio io, scoprire cosa è “bene” cosa è “male” a creare una società che viva non di solo denaro ma come si raggiunge la vera libertà, quali i valori ?

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