Nulla di nuovo sul fronte conservatore…

Unità, chiarezza, certezza, fermezza, custodia, verità: queste le parole d'ordine sul fronte ecclesiale conservatore. E se le riassumessimo in una, ossia parzialità?
8 Maggio 2025

“Nulla di nuovo sul fronte… conservatore”. Così si potrebbero sintetizzare gli interventi giunti da quel dialetto ecclesiale nei giorni precedenti al conclave, con il chiaro intento di influenzarne l’andamento. Unico vangelo di Cristo, chiarezza e certezza identitaria della dottrina teologica, ferma custodia del deposito della fede da parte del Papa e dei Vescovi. E, su tutto, verità, verità, nient’altro che la verità. Metafisica. Assoluta.

Diciamola tutta, però, questa verità – soprattutto quella evangelica, biblica, colta sempre alla luce della Tradizione che viene prima e va oltre le diverse tradizioni. Perché, altrimenti, si corre il rischio di far apparire questa chiarezza ed unità auspicate come un desiderio di semplificazione della fede e una fuga da ogni sua problematizzazione e complessità.

Tralascio l’ormai consueto tacere tradizionalista sulle opere dello Spirito – questo sconosciuto! [1] – con conseguente oblio: a) della pratica sinodale (oltre a quella conciliare); b) del senso spirituale della storia umana (per cui, ad es., un papa è successore sì di Pietro, ma anche di tutti i suoi predecessori, compreso l’ultimo); c) della capacità (pentecostale) di interpretare il linguaggio di tutti, così da poter dialogare con tutti; d) della cura/coltivazione/coltura (e quindi della “cultura”/inculturazione) che è richiesta per conservare e custodire ogni vera religio.

Il problema, grave, di quel dialetto ecclesiale consiste nell’oblio della sostanza evangelica e biblica, della provenienza divina e cristica (oltre che spirituale), della consistenza dottrinale e veritativa di tutti quei segni che a quell’orecchio ecclesiale suonano come cedimenti timorosi al mondo e alla mondanità, come annacquamenti o adombramenti della trascendenza, come relativizzazione o ideologizzazione della dottrina…

Ora, quello che deve essere chiarito una volta per tutte, il vero punto fermo o caso serio rispetto a cui non si può e non si deve tornare indietro rispetto al pontificato di Francesco è che quei segni sono anch’essi vangelo di Cristo, depositum fidei, verità, dottrina. Certo, sempre facendo attenzione a che non si deformino in alternativi ma speculari “valori non negoziabili” (progressisti) e che la loro traduzione sociale e politica sia sempre frutto di una complessa mediazione: a tal fine, però, abbiamo la virtù della prudenza che ci sostiene sin dalla civiltà greco-romana e gli insegnamenti del Concilio Vaticano II che ci guidano ormai da quasi un secolo.

Ciò premesso, come possiamo non ricordare che l’unico vangelo di Cristo è sin dall’origine donato in quattro vangeli redatti “secondo” – “dal punto di vista di” – e quindi in modo non uniforme, ma multiforme, dialettico, poliedrico? Come non ricordare – ne ho parlato qui sulla scia dell’ultima omelia di Francesco – che il (vangelo del) Cristo risorto non è solo né innanzitutto da annunciare o testimoniare, ma da «cercare altrove»? Nelle periferie della Galilea, sulla soglia della frontiera e del confine con gli “altri” (At 10), in coloro in cui non ci appare immediatamente – affamati e assetati, stranieri e carcerati, malati e spogliati di tutto – ma nei quali è altresì “misticamente” presente (Mt 25,31-46) – come ha scritto da ultimo anche il cardinal Gambetti durante i novendiali.

Come non ricordare che è lo stesso Gesù a rivolgersi ed aprirsi anche ai lontani (peccatori o meno)? E, al contempo, ad irritare molti dei vicini, provocandone la chiusura e l’indurimento di cuore (Mt 13,15)? Non ci sono, infatti, due forme opposte ma speculari di rendere vuota e dissolvere la propria anima, di isolarsi e smarrirsi? Ma ciò, come nella parabola del seminatore, non è sempre a gloria della misericordia di Dio (Mc 4,12)?

Come non ricordare – sulla scorta del cardinal Gugerotti (quando ha parlato della diversità dei cattolici orientali) – che la divisione interna alla comunità ecclesiale comincia quando non si vuole ricontestualizzare nell’oggi (differente) la salvezza sperimentata con Gesù nel suo (differente) contesto originario? Quando le differenti porzioni di Chiesa ad intra e ad extra non confessano le rispettive patologie, ossia quando chi è dentro non riconosce i propri errori (travi o pagliuzze che siano) e chi è fuori pensa di avere solo talenti ispirati da Dio? E come non ricordare, viceversa, che l’unità viene ricomposta quando si scopre, si trova, in modo certo creativo, modalità più complesse e quindi più inclusive di credere, pregare ed essere caritatevoli (At 15)? Quando sia chi è dentro/vicino sia chi è fuori/lontano riconosce i propri errori (travi o pagliuzze che siano) insieme agli altrui talenti?

Come non ricordare che nei vangeli ogni primato di potere e di autorità, di conferma e di guida richiede una profonda conversione delle proprie convinzioni (Lc 22,32; Gv 21,15-17), una decisa mitezza (1Pt 3,15), una costante condivisione del suo esercizio (At 15,23-29), un deciso rifiuto di ogni sua sacralizzazione (At 10,25-26)? Non è forse per questo la pace che dà Cristo è diversa dalla pace che dà il mondo (Gv 14,27)? Non è forse per questo che il primo titolo di ogni pontefice – come ricorda il cardinal Sandri – dovrebbe essere quello di “servus servorum Dei”, al quale di conseguenza ci si può rivolgere – come nel caso di Francesco – con un semplice «grazie»?

Come non ricordare, infine, che dai vangeli, dalla Bibbia e dalla tradizione di pensiero cristiano (letterario, filosofico e scientifico) emerge una religione corroborata non solo dalla ragione, dalla metafisica, ma anche – e con egual valore – dalle emozioni, dalle passioni, dai sentimenti (vedi qui e qui)? Una religione, proprio grazie a ciò, in grado di comprendere, contenere e accompagnare – financo di imparare da – solitudini, paure, insicurezze, smarrimenti, annichilimenti di sé e degli altri? O, addirittura, in grado di intervenire a favore di quel creato che, in travaglio doloroso, «aspetta la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19-22)?

L’impressione è che, seppur chiara, la teologia proveniente da tale dialetto sia estremamente parziale e, in definitiva, povera. Il che non deve portarci a giudicarla dall’alto verso il basso, con un presuntuoso senso di superiorità morale, ma sicuramente richiede l’impegno a correggerla fraternamente (Mt 18,15-17.21-22) nella sua pretesa/protesta di “restituire” la Chiesa a chi è (formalmente) dentro di essa. Soprattutto, a farne maturare la durezza – tipica del fratello maggiore della nota parabola – restando in sua compagnia, a costo di rinunciare alla festa in corso, insieme al padre misericordioso che ama e perdona entrambi.

Anche qui – soprattutto qui – a gloria di quella misericordia che è, secondo il cardinal Parolin, l’unica faccia del poliedro cristiano per la quale è lecito parlare di «ansia di annunciarla» come (vera) buona notizia e (vero) presupposto della (vera) pace voluta da Cristo.

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[1] Cfr. Sergio Ventura, Imparare dal vento, EDB (2024), p.121-128.

Una risposta a “Nulla di nuovo sul fronte conservatore…”

  1. Alberto Ghiro ha detto:

    Penso che ci siano modi diversi di vedere la fede, tutti giusti se rimangono fedeli alla Parola e tutti sbagliati se invece la citano solo come sostegno delle proprie argomentazioni. L’errore sarebbe negare sensibilità, punti di vista e scelte di vita di ciascuno per realizzare un consenso unanime, nella convinzione forse che una forza plebiscitaria possa prevalere sul male? Personalmente credo che la Chiesa non debba riflettere i meccanismi politici che hanno come fine il potere ma far leva proprio sul confronto interno e non sul pensiero comune per “cercare il regno di Dio e la sua giustizia” e non il potere. Forse io sono troppo idealista e poco pragmatico ma forse è anche per quello che mi attrae la religione…

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