Non so se l’ho mai scritto. Ma quando fu eletto Francesco si sciolse un nodo che evidentemente si era formato dentro di me – in profondità – e piansi. Lunedì mattina, mentre mi avviavo sul sentiero Rilke, la notizia della sua morte mi ha come paralizzato, facendomi sentire nelle viscere il ricordo di quel nodo, forse prigioniero del timore che potesse ricrearsi.
Fortunatamente – o per grazia – mi è tornato in mente un noto incipit poetico dello stesso Rilke: «O Signore, concedi a ciascuno la sua morte: / frutto di quella vita / in cui trovò amore, senso e pena». Come ha evidenziato (qui) Sergio Di Benedetto, al Papa che si è fatto tramite di tante grazie riversate su di noi, il Signore ha concesso tale grazia. A maggior ragione, le sue ultime parole del 20 aprile, seppur lette da altri, assumono il valore «di congedo e di eredità», di «sintesi» e «sigillo».
Chiaramente, si tratta di una sintesi meno consolatoria e più «segno di contraddizione» (G.Borghi), una sorta di et-et che provoca un aut-aut, dal punto di vista sia politico che teologico. In ogni caso, è esattamente quel «lessico» che Lorenzo Pisani ci invita (qui) a «prendere sul serio».
Nel primo caso, il messaggio «Urbi et Orbi» è inequivocabile: sulla questione specifica di Gaza, Francesco ha ricordato che «il terribile conflitto continua a generare morte e distruzione e a provocare una drammatica e ignobile situazione umanitaria»; sulla questione più generale della pace nel mondo, ha riaffermato che «nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo».
Non è un caso, quindi, che mentre l’attuale capo del governo israeliano Netanyahu ha ordinato alle proprie ambasciate di cancellare i post di condoglianze pubblicati per la morte di Francesco, il rabbino capo di Roma Di Segni è stato tra i primi a visitare la salma di Francesco e parteciperà ai suoi funerali sabato 26 aprile. Non è un caso, ancora, che in vista delle esequie del vescovo di Roma – per dirla con De André – «il potere vestito d’umana sembianza, / ormai [lo] considera morto abbastanza / e già volge lo sguardo a spiar le intenzioni / degli umili, degli straccioni», ossia di quelle decine di migliaia di persone che in queste ore stanno visitando la salma di Francesco e che la accompagneranno sabato mattina verso la tomba posta nella basilica di Santa Maria Maggiore. Tale affluenza spiega perché i rappresentanti di questo potere non hanno remore a concedere giorni e giorni di lutto nazionale, a pronunciare parole che non mettono in pratica (Mt 23,3), mentre restano favorevoli ad ogni tipo di riarmo anticristico (Mt 26,51-53). D’altra parte, è di queste ore la bocciatura da parte della Commissione affari giuridici (Juri) del Parlamento europeo della procedura richiesta dalla Commissione UE, presieduta da Ursula von der Leyen, per approvare il piano di ReArmEu evitando il voto del Parlamento stesso: nella rete si parla già di primo miracolo del defunto Francesco (anche se la von der Leyen, per ora, sembra “tirare dritto”…).
Passando all’aspetto teologico, c’è un punto decisivo nell’omelia di domenica mattina su cui puntare i riflettori, come non è stato ancora fatto. Papa Francesco ha chiaramente messo l’accento sul fatto evangelico secondo cui «l’annuncio della Pasqua» consiste fondamentalmente nella «ricerca di Gesù». Sì, è vero, «i papi vanno e vengono, resta Cristo» (E.Parazzoli), ma il Risorto prima di annunciarlo, di testimoniarlo agli altri, innanzitutto è necessario «cercarlo altrove» (ne parlavo già qui). La stessa Chiesa in uscita è veramente tale quando esce sì, ma non innanzitutto per «andare a cercare» questi altri e «comunicargli la bellezza del Vangelo» (R.Gumina), bensì «per cercarlo» questo benedetto Vangelo di Cristo e «cercarlo nella vita, cercarlo nel volto dei fratelli, cercarlo nel quotidiano, cercarlo ovunque», «ancora», «sempre». Perché Lui «si nasconde e si rivela anche oggi nelle sorelle e nei fratelli che incontriamo lungo il cammino, nelle situazioni più anonime e imprevedibili della nostra vita». Ed è quindi necessario imparare ad «avere occhi capaci di “vedere oltre”, per scorgere Gesù, il Vivente, come il Dio che (…) ci precede, ci sorprende».
Il punto è decisivo – e «sparigliatore» (R.Beretta) – perché in quella che ho spesso chiamato una sorta di ansia di evangelizzazione si tende invece ad equiparare quest’ultima, anche se in uscita/estroversione verso la Galilea delle genti, con l’annuncio e la testimonianza di qualcosa o di Qualcuno già dato, già noto. E, di conseguenza, si tende a considerare una perdita di tempo, se non un esperimento fallimentare, il processo di ricerca (ottica ed acustica) che, ad esempio, caratterizza il cammino sinodale – proprio per questo incompreso, disatteso, quando non osteggiato. Naturalmente, poi, ci si lamenta del mondo nel momento in cui ci si accorge che una tale evangelizzazione o la sua corrispondente liturgia finiscono per risultare – con le parole di Francesco – la «bella storia da raccontare» di «un eroe del passato» o la celebrazione di «una statua sistemata nella sala di un museo»; oppure, si accusa la Chiesa (ovviamente quella di Francesco) di essersi ridotta ad una ONG o di aver ridotto il cristianesimo a qualcosa di «socio-antropologico» (E.Mazzarella), quando in realtà non se ne sa cogliere la capacità «mistica» (A.Spadaro) di scorgere e ascoltare (lo Spirito di) Cristo nell’altro (Mt 25,31-46; 1 Gv 4,20-21) e, solo perciò, di riuscire a trovare parole e gesti in grado di essere significativi per gli uomini e le donne di oggi, senza alcun (presunto) annacquamento della trascendenza divina.
Parole e gesti creativi, quindi più gioiosi ed inclusivi (o partecipativi), perché frutto non solo o tanto di una trasmissione di un già d(on)ato – che sa tanto di «statica (…) rassicurazione religiosa» – ma innanzitutto e soprattutto della scoperta di una via, di una verità e di una vita inaspettata e stupefacente d(on)ata negli altri dall’Altro. Solo da questo punto di vista, secondo Francesco, possiamo definire tale scoperta – con le parole di Adriana Zarri in Quasi una preghiera – una «perenne novità», coglibile nei suoi «inediti colori» in mezzo alla grigia e «triste polvere dell’abitudine, della stanchezza e del disincanto» (anche di questo ne avevo parlato già qui e qui).
Ecco che, ora come allora, all’interno di queste coordinate politiche e teologiche, con Francesco «tutto ricomincia». Anche per noi, se lo vogliamo, e se ce ne assumiamo la responsabilità.
Cosa resta delle parole e dei gesti di Papà Francesco?Le une ma più suoi gesti di una carità provata verso certo popolo che oggi si dibatte in considerevole numero di povertà: non solo la fame, duro lavoro, ma un vivere senza gioia, in una società che non sa quale è il vero bene cui aspirare, mirando a perseguire sempre maggior benessere optando per dei valori diversi da quelli che Cristo ha insegnato essere la vera via alla salvezza per l’uomo di ogni tempo.. Anche la famiglia di Nazareth ricordo natalizio, Storia del passato, segno superato non più rispondente all’oggi, Difficile rinunciare all’uso delle armi, una guerra si giustifica come via per pretendere la Pace giusta, difesa di diritti, conquista di potere, malgrado il costo di vite umane, un sacrificio difficile da far accettare il cui dolore diventa pietra sulla quale il cuore sanguina.Tanto il lavorare alla vigna del Signore, al Successore di Pietro