Quando un incontro solleva molte aspettative è chiaro – e anche giusto – che sia gravato di maggiori responsabilità, quanto ad organizzazione e buona riuscita. L’incontro di sabato 29 marzo nella basilica di San Giovanni di Roma rientrava in questa tipologia, sia per il tema affrontato (“la responsabilità della Speranza e il lavoro dello spirito”) che per le persone chiamate ad intervenire (Reina, Spadaro, De Rita, Cacciari, Rosini, Riccardi).
A proposito di quest’ultimo aspetto, Paola Springhetti ha (qui) dato voce a quanto subito era stato fatto notare sui social (a partire dal profilo di padre Spadaro), ossia che al «tavolo dei relatori» sedevano «tutti uomini» e nessuna donna. C’è un altro aspetto, perlomeno curioso, sul quale vorrei attirare l’attenzione.
Tre giorni prima dell’incontro avevo evidenziato (qui) come una breve riflessione introduttiva all’incontro, apparsa a firma di Giuseppe De Rita sulla pagina online dell’Ufficio per la Pastorale Scolastica e IRC di Roma, fosse caratterizzata da «alcune delle ambiguità presenti negli snodi fondamentali del cammino sinodale della Chiesa italiana»: l’accento sulla categoria della «presenza» (ecclesiale) di contro all’uso strumentale di quella della (inter)mediazione; la descrizione dell’ecclesia ad extra come «“zona grigia”», «nella» quale la Chiesa docens «porta» e «riattiva» ciò che è «suo»; il riferimento finale al «recupero dei valori» – il tutto senza alcun riferimento a quelli che avevo chiamato, con una voluta contrapposizione, gli «infiniti colori (opera dello Spirito) già presenti, secondo l’insegnamento conciliare (AG 2) e papale (RM 28; EG 246; 288), in queste zone di confine (dello spirito al lavoro)», i «colori-doni dello Spirito Santo (o di Santificazione) che si danno nello spirito del mondo (santificato) e dai quali tutta la Chiesa può imparare, con fiducia gioiosa, qualcosa di nuovo su Dio (GS 44; EG 272)».
Due giorni dopo il mio articolo però – e quindi il giorno prima dell’incontro – viene pubblicato su Avvenire un articolo, sempre a firma di Giuseppe De Rita, che per buona parte riprende alla lettera e nella sua impostazione logica quanto egli aveva scritto in precedenza – con tutte le criticità già segnalate. L’aspetto tanto curioso quanto interessante consiste però nel fatto che il resto dell’articolo di Avvenire, dopo il riferimento finale ai valori, prosegue con un «allora», ingiustificato dal punto di vista della logica argomentativa, ma rivelativo di una palese correzione in corsa. Scrive De Rita:
«la prospettiva allora non dev’essere quella di “andare in missione” nella zona grigia, ma di sperare (e qui sta il senso della “Responsabilità della Speranza”) che la zona grigia sia già in missione per conto dello Spirito. Non c’è niente da insegnare, perché la vocazione non si insegna» e lo Spirito «è sommamente libero e soffia dove vuole», soprattutto se «non si tratta di affrontare un deserto, né tantomeno un territorio ostile» – dato che «forse c’è in giro meno indifferenza di quel che si immagina» – ma «si tratta di tornare ad occuparsi della zona intermedia della società, (…) quella che Romano Guardini chiamava “l’officina dell’esistenza”».
Chissà se è un caso, poi, che la correzione in corsa avvenga anche sull’altra questione (legata a questa) che avevo sollevato: quella degli organismi partecipazione, la cui esistenza e valorizzazione mi sembra strettamente connessa al riconoscimento del loro «lavoro laboratoriale di mediazione e superamento dei conflitti grazie al discernimento spirituale comunitario – soprattutto su ciò che è opera e voce dello Spirito (di Dio) all’interno del lavoro e della voce dello spirito (del mondo)». È vero che De Rita parla di «un lavoro di rafforzamento dell’armamentario [sic!] spirituale e di orientamento (…) di quali opportunità la società offra al lavoro dello spirito. Un’azione quasi a distanza, come di chi, da una posizione privilegiata, sappia indicare i sentieri su cui può essere vantaggioso muoversi», ma è soprattutto vero che egli nel finale riconosca che:
«a compiere questo lavoro dello spirito, devono sentirsi chiamati principalmente i laici, che sono quelli più impastati alla società (…), uomini e donne di buona volontà, capaci di riconvertire le esperienze cristiane in esperienze umane e viceversa, (…) di aiutare nella ricerca di un fine le tante esperienze civili che, senza vocazione, rischiano di sciupare energie. Occorre, tutti insieme, trovare ambiti e strumenti per fare questo tipo di lavoro».
Cosa abbia determinato in De Rita questa correzione o, quantomeno, integrazione non lo sappiamo. Forse, come avevamo scritto, la provvisorietà della versione apparsa sulla pagina dell’ufficio scuola di Roma (ma allora perché pubblicarla?) e il lavoro nascosto dello Spirito hanno fatto ‘sentire’ a De Rita, come al sottoscritto, la dissonanza di quella prima riflessione. Così come, forse, è lo stesso Spirito che ha portato il sottoscritto e, un paio di giorni dopo, Riccardo Cristiano (qui), a ‘sentire’ la necessità di criticare la colorazione grigia della zona in questione, per sostenere invece la presenza in essa di una variopinta colorazione e la necessità di valorizzarla.
Drammatico, se non inquietante, è infine il fatto che di tutto ciò il lettore medio non avrebbe saputo niente se non fosse stato pubblicato (qui) il prezioso resoconto di Riccardo Cristiano. Leggendo gli articoli di Romasette (ripreso dal sito della Diocesi di Roma), a firma di Giuseppe Muolo, e dell’Osservatore Romano, scritto da Guglielmo Gallone, siamo stati tratti in inganno. Tali articoli, in effetti, ci hanno condotti a pensare che l’incontro del 29 marzo fosse ruotato intorno al ruolo dei cristiani in questa zona grigia, intesa riduttivamente come mero «campo da animare spiritualmente» (equivoco a cui avrebbe contribuito, secondo il resoconto di Cristiano, padre Spadaro, in quanto autore dell’ultima espressione poi rilanciata a caratteri cubitali dal titolista, a differenza dell’altra, sempre di Spadaro, secondo cui «lo Spirito soffia anche oggi negli spazi e nei tempi di turbolenza» come «forza propulsiva interiore»).
Lo stesso intervento del cardinal Reina assume un senso del tutto diverso – e coerente con le Linee guida per il cammino pastorale della diocesi di Roma (2024-2025) – nell’articolo di Cristiano, per il quale egli «è parso indicare l’esigenza di andare oltre questa posizione» di «uscire per riportare all’ovile» la zona grigia, anzi «lasciando intendere che forse sarebbe opportuno capire se l’ovile sappia essere ospitale» (o meno) nei confronti degli abitanti di tale zona.
In altri termini, come potrebbe rianimare una presunta zona grigia qualcuno che, avendo accolto poco lo Spirito in sé, è già poco animato di suo? Si tratta allora, ancora una volta, di esercitarsi nell’arte di far brillare, di far risplendere – più che di illuminare – i multiformi colori che già caratterizzano la zona presunta grigia grazie a ciò che Massimo Cacciari chiama il lavoro dello spirito e in cui noi potremmo riconoscere lo Spirito al lavoro.
Richiamo, credo IT, quanto scrive su Osserv.aromano il buon Sequeri.
Come non con-dovidere??
https://www.osservatoreromano.va/it/news/2025-04/quo-075/afferrare-il-passaggio-del-regno-di-dio.html