«Il lavoro dello spirito e la responsabilità del pensiero cattolico» è l’accattivante titolo dell’ultima ricerca condotta dal Censis che verrà presentata sabato mattina 29 marzo durante l’incontro “La responsabilità della Speranza e il lavoro dello spirito” nella basilica di San Giovanni in Laterano. Dopo i saluti e l’introduzione del cardinal vicario Baldo Reina, discuteranno la ricerca del Censis don Fabio Rosini, Massimo Cacciari, Giuseppe De Rita e Antonio Spadaro, moderati da Andrea Riccardi.
Purtroppo non riuscirò ad essere presente, ma una breve riflessione introduttiva di De Rita, pubblicata di recente nella pagina online dell’Ufficio per la Pastorale Scolastica e IRC di Roma, mi ha spinto ad offrire un piccolo contributo alla comune riflessione.
Nel mio testo Imparare dal vento (p.98-99) avevo segnalato e commentato una condivisibile ricostruzione storica di De Rita (intervistato nel 2020 da padre Spadaro su La Civiltà Cattolica) riguardo quel periodo postconciliare degli anni ’70 in cui «la Chiesa italiana ebbe il coraggio di osare». Nella riflessione attuale di De Rita, invece, non ritrovo la stessa puntualità di analisi ma, anzi, alcune delle ambiguità presenti negli snodi fondamentali del cammino sinodale della Chiesa italiana (spero dovute solo alla brevità e, forse, provvisorietà delle considerazioni svolte).
Compare, infatti, quel termine «presenza» che evoca una ben determinata ecclesiologia (sostenuta dalla svolta impressa da Giovanni Paolo II alla Chiesa italiana verso la metà degli anni ’80): certo, De Rita afferma che essa non può più essere pensata come «maggioritaria», ma egli continua in fondo a proporla come «incisiva». Ciò non sarebbe in sé problematico, ma lo diventa nel momento in cui appare strumentale ogni riferimento alla categoria di (inter)mediazione, a sua volta evocativa di un’altra determinata (e all’epoca “concorrente”) ecclesiologia, che sarebbe stata in grado quantomeno di temperare le interpretazioni e concretizzazioni poco dialogiche dello stile di presenza evocato da De Rita.
In effetti, il “luogo ecclesiale” in cui abita l’altro (limitato qui ai cattolici non praticanti) viene definito «una ambigua “zona grigia”» – caratterizzata da «perdita di senso» e «pericoloso impigrimento» – «nella» quale la Chiesa può/deve «portare (…) i suoi attrezzi spirituali, il suo bagaglio di capacità di orientamento, la sua tensione verso un altrove, la sua spinta a dare senso ad una vita», per «riattivare quei semi, anche piccoli, che la “chiesa in uscita” porta con sé e che oggi, magari senza saperlo, getta nella società».
Tale movimento missionario ed evangelizzatore, di per sé tipico della tradizione, è però chiaramente ed esclusivamente unidirezionale: dalla Chiesa docens (che trasmette e semina) al mondo discens (che riceve e viene inseminato). Molto simile a quella catechesi «addestrativa» alla «volontà» del Padre – di cui parla don Fabio Rosini – che però rende ancora oggi lo Spirito di questo Padre (e del Figlio) il grande sconosciuto (cfr. Imparare dal vento, p.126, n.17).
È vero che, citando un’opera di Massimo Cacciari, si parla di avvio e sviluppo di un «lavoro dello spirito centrato sulla ricerca di vocazione a tutti i livelli», ma è altrettanto vero che non si fa nessun riferimento a qualcuno degli infiniti colori (opera dello Spirito) già presenti, secondo l’insegnamento conciliare (AG 2) e papale (RM 28; EG 246; 288), in queste zone di confine (dello spirito al lavoro). Colori-doni dello Spirito Santo (o di Santificazione) che si danno nello spirito del mondo (santificato) e dai quali tutta la Chiesa può imparare, con fiducia gioiosa, qualcosa di nuovo su Dio (GS 44; EG 272). Ma cosa resta da imparare se è già tutto dato e si tratta, eventualmente, solo di meglio tradurre?
Non è un caso, crediamo, che rispunti fuori nelle conclusioni di De Rita l’intento tipicamente religioso volto al «recupero di valori civili e sociali, magari con risonanze religiose, pur senza tradizionali richiami ad appartenenze»: appiglio noto e perciò tranquillizzante, ma ormai equivoco e logoro per il lungo e discutibile uso che ne è stato fatto durante la stagione dei cosiddetti “valori non negoziabili”.
Nelle Linee guida per il cammino pastorale della diocesi di Roma (2024-2025) si parlava invece di una Chiesa impegnata nella «lettura dei segni dei tempi alla luce del Vangelo e nella dinamica del Regno, i cui germi sono scoperti e annunciati dalla Chiesa dentro e fuori di sé». Dunque, certamente di una Chiesa che annuncia fuori di sé il (germe del) Regno, ma ulteriormente di una Chiesa che – in linea con il cammino sinodale italiano – è disposta a cercare e scoprire questo (germe del) Regno anche fuori di sé.
Se il primo aspetto – che costituisce il movimento tradizionale della missione ad extra – è chiaramente visibile nella presentazione dell’evento di sabato mattina, il secondo aspetto – che invece richiede una visione della missione più complessa ma non meno originaria – sembra restare sullo sfondo se non addirittura assente.
Di conseguenza, un destino analogo se non peggiore, rischia di subire il tema (collegato alla missione) del rilancio degli organismi di partecipazione. Senza il loro lavoro laboratoriale di mediazione e superamento dei conflitti grazie al discernimento spirituale comunitario – soprattutto su ciò che è opera e voce dello Spirito (di Dio) all’interno del lavoro e della voce dello spirito (del mondo) – non potrebbe esserci un vero «pensiero cattolico»: un pensiero veramente “katà-olòn”, cattolico, universale, aperto a tutti e a tutto, al buono e al bello che c’è in tutti e in tutto (1Ts 5,21).
La mia – di speranza – è che tale sfondo possa essere invece messo maggiormente in rilievo sabato mattina. Ne va veramente della capacità attuale e futura della Chiesa di rapportarsi come comunità con un mondo in cui il famoso rapporto evangelico di “99 a 1” si è ormai da tempo invertito…