La vicenda Sarah-Benedetto XVI: questioni personali o istituzionali?

La vicenda Sarah-Ratzinger presenta un risvolto istituzionale e culturale sul quale vale la pena ritornare...
23 Gennaio 2020

La vicenda Sarah-Ratzinger (o meglio – in questo caso – Benedetto XVI) ci sembra abbia un risvolto istituzionale e culturale sul quale vale la pena ritornare, anche se non sono stati ancora sviluppati gli aspetti ecclesiologici e antropologici, dato che i nodi teologici erano già stato colti qui dal nostro Gilberto Borghi in tempi non sospetti.

Abbiamo letto tutti la confutazione da parte del teologo Andrea Grillo della riflessione che il cardinal Sarah, Prefetto della Congregazione del culto e dei sacramenti, sviluppa nel libro che contiene l’intervento di Benedetto XVI: “approssimativa, contraddittoria, scomposta e piena di errori teologici e storici, da non poter essere neppure considerata un discorso compiuto e coerente: vi si esprime un abbozzo di visione del celibato che non ha alcun fondamento né nella storia né nella realtà. Uno “sguardo” stravolto e distorto, talora anche violentemente irrispettoso”. E abbiamo anche visto come, di conseguenza, lo stesso Grillo si “sorprende” che siffatta riflessione provenga da “colui che da 5 anni è il responsabile più alto della Congregazione che si occupa di culto e di sacramenti”.

Di fronte a tale critica e soprattutto a tale stupore, potrebbe sorgere una certa preoccupazione attenta a non danneggiare l’unità e la comunione ecclesiale più di quanto (sembra) lo siano, e a proteggere l’autorevolezza (e la libertà di espressione) del cardinal Sarah da ‘attacchi personali’. Identico timore potrebbe sorgere quando lo stesso teologo fa notare, peraltro in modo garbato, che Benedetto XVI “da papa regnante usava il suo nome di battesimo per firmare le sue opere non magisteriali, mentre ora usa il nome papale per firmare riflessioni teologiche strettamente personali”.

Si tratta di preoccupazioni comprensibili, ma ci sembra che denotino una certa difficoltà a isolare e integrare l’aspetto giuridico-istituzionale di qualsivoglia problematica – questo sì fondamentale, quasi ontologico, nel ragionare cattolico – rispetto a quello personale.

Quando si copre un ruolo apicale si deve essere un soggetto capace, esperto, formato (e proprio in Italia sappiamo bene quanto questo non sia affatto scontato): un prefetto, quindi, non può mostrare di avere così ampie carenze teologiche, o non può rifarsi a teologie non rispettose di Costituzioni dogmatiche espressione del magistero conciliare di cui un prefetto dovrebbe essere custode e garante. Ciò, d’altra parte, non comporta alcun giudizio sulla persona, ma solo sulla sua competenza nel ruolo: cosa diremmo di un professore universitario che volesse interpretare secondo una datata e non più accettata ermeneutica crociana il poema dantesco, suddividendolo in “poesia” e “letteratura”? E chi non pretenderebbe che il primario di un reparto ospedaliero sia esperto, competente e aggiornato nel campo in cui si trova a operare?

Se questa preoccupazione sorgesse e, però, dovesse condurci all’afasia, è proprio perché, crediamo, manchi una cultura istituzionale non elitaria, ma popolare. Quando nell’ambito scolastico abbiamo criticato – anche duramente – un dirigente scolastico, eravamo sempre consapevoli che la questione riguardasse ruoli e funzioni istituzionali, ma non la persona. Il non riuscire a vivere tutto questo consisterebbe in un’ulteriore prova che le persone coinvolte non sono del tutto adeguate a svolgere quel ruolo.

Anche l’evidenziare l’età avanzatissima (quasi 93 anni) del Papa emerito per giustificare il ‘pasticcio’ di questi giorni, non solo potrebbe risultare quantomeno scortese a livello personale o collusivo con il torbido che sembra di nuovo emergere, ma soprattutto è un problema che dal punto di vista istituzionale ha – o meglio dovrebbe avere – la sua cornice giuridica di ‘contenimento’. In tal senso il suo ‘entourage’ ha delle responsabilità, appunto, formali-istituzionali che devono essere assunte sino in fondo, soprattutto non essendo stata ancora normata la figura del Papa emerito.

Si potrebbe far notare, poi, come il nostro concentrarci sull’aspetto giuridico-istituzionale (che in realtà è solo un riequilibrare la discussione su un aspetto che ci sembra trascurato) sia secondario rispetto all’idea che le strutture cambiano se le persone che le abitano si convertono, per cui – come ripete anche Papa Francesco – un riaggiustamento puramente istituzionale sarebbe come rattoppare un buco destinato a riaprirsi.

La frase ci sembra vera solamente a metà, nel senso che d’altra parte contribuisce a obliare tutto il grande discorso teologico sulle strutture di peccato – che non fu una mera concessione alle filosofie dell’epoca, ma anche la capacità di cogliere quanto di buono, anzi di ottimo, era stato elaborato dal costituzionalismo europeo. Certo che dipende dalla bontà o malvagità degli uomini se una forma di governo ha esiti dittatoriali (pur in una cornice democratica) o illuminati (pur in una cornice non democratica), ma la presenza o meno di un’istituzione come – ad esempio – la Corte costituzionale (non a caso introdotta dopo il disastro della seconda guerra mondiale) aiuta e di molto l’essere umano nel suo esercizio della difficile libertà, evitando derive liberticide.

La questione, infine, presenta un altro problema di fondo, che riguarda il supporto filosofico-teologico che gli esperti offrono al pensiero di papa Francesco – e come lui stesso percepisca l’utilità di tale supporto. Si tratta di un problema enorme, perché il primato della carità e della gestualità rischia di obliare quanto un pensiero solido e una cultura adeguata siano necessari per perseguire due finalità che stanno a cuore allo stesso Papa Francesco: 1) la decostruzione di modalità clericali e narcisistiche di praticare la carità e la misericordia; 2) l’elaborazione di modalità di inculturazione adeguate per evangelizzare (dal di dentro) nuove e antiche culture non – ancora o più – cristiane.

Non è un caso, ci sembra, che un altro ‘pasticcio’ simile – quello della lettera di Benedetto XVI che portò alle dimissioni di Mons. Dario Viganò – si verificò proprio in concomitanza del tentativo analogo di ‘tirare per la giacchetta’ il Papa emerito affinché legittimasse l’operazione culturale di individuare la base teologico-filosofica, ossia il pensiero, alla base dell’agire di Francesco (allora come oggi ingiustamente accusato di essere un agire ‘irriflesso’).

Qui la discussione non ci sembra ancora veramente avviata perché bloccata nella palude delle reciproche accuse tra schieramenti, come se ci fosse stato un unico modo (woityliano-ruiniano-ratzingeriano) di ‘progettare’ cultura e quindi un unico modo (bergogliano) di bollare – come ‘idealistico’ – qualsiasi tentativo di ri-pensare altrimenti una cultura adeguata per l’oggi. Quando invece anche il discernimento, soprattutto in sede di nomine, ossia di Potere, è un processo che richiede di possedere una decisa cultura istituzionale (ricordando che già gli antichi indicavano come miglior governante colui che non ha interessi –  o conflitti di interesse – di alcun tipo, a partire da quelli del foro interno), insieme all’onorare la cultura quale istituzione (senza ridurla a spazio in cui ‘relegare’ o ‘posizionare’ figure istituzionali vittime dello spoils system o della loro inadeguatezza).

È curioso notare, infatti, che i citati protagonisti dei due suddetti ‘casi’ (Viganò e Sarah) siano stati nominati Prefetti proprio da Papa Francesco. Ecco, se volessimo sperimentare quanto siamo capaci come Chiesa di convivere con la dimensione giuridico-istituzionale, senza che ciò significhi giudicare quella personale, potremmo cominciare ad interrogarci sulla ‘tenuta’ di alcune nomine interne al pontificato di Papa Francesco: altrettanto fu fatto sotto Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, e lo stesso vescovo di Roma ha mostrato grande libertà interiore rispetto alle proprie nomine, spesso – in tal senso – pro(ri)mosse.

Il Potere, d’altronde, è la tentazione diabolica per eccellenza, quella su cui si verificano veramente gli esseri uomini nel loro profondo: una volta raggiuntolo possono trasformarsi – a volte – da individui attratti da esso in persone con qualche apertura, oppure – più spesso – da persone dedite all’ascolto in individui sordi ad ogni grido altrui. E che si possa sbagliare nello scegliere le persone è in fondo mysterium vitae e mysterium iniquitatis, scommettendo sulla libertà delle persone e sulla loro capacità di non pervertire i propri talenti.

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