Amoris Laetitia e le invenzioni di Francesco

«Una delle cose che mi ha sempre tenuto lontano dalla Chiesa è l'idea che per voi il bene sia oggettivo e la coscienza della persona conti nulla, al di là delle parole ufficiali. Forse Francesco ha inventato qualcosa di nuovo...»
11 Maggio 2017

In sala insegnanti. Ho un’ora “vuota”, la classe partecipa ad un progetto extracurriculare, con un docente esterno. Il collega di italiano, che ha la classe parallela, è anche lui “libero” per lo stesso motivo.

“Senti Borghi – mi dice – ho letto una cosa molto interessante su Amoris Laetitia. Un articolo di presentazione di un testo uscito proprio da poco, curato da alcuni docenti della Gregoriana, dal titolo: “Amoris laetitia: un punto di svolta per la teologia morale?”. L’hai visto?” “Purtroppo no – rispondo – ma mi interessa molto il tema. Che cosa dice l’articolo?” “Sottolinea la tesi del libro, secondo cui Amoris Laetitia presenterebbe un nuovo modo di impostare la teologia morale, in cui il bene è relativo alla condizione delle persone, e non è qualcosa di assoluto, definito una volta per tutte. Una delle cose che mi ha sempre tenuto lontano dalla Chiesa è proprio l’idea che per voi il bene sia oggettivo e la coscienza della persona conti proprio nulla, al di là delle parole ufficiali. Forse Francesco ha inventato qualcosa di nuovo”.

Lo conosco da qualche anno. Ma non c’è mai stata occasione di entrare nel merito. Perciò resto colpito dal suo interesse teologico e gli offro attenzione: “Ah, interessante – commento io – è una questione grossa. Da secoli la teologia si è posta il problema del rapporto tra oggettivo e soggettivo nella definizione del bene morale. Non la faccio lunga, ma secondo me la posizione di Francesco è: la verità è oggettiva, ma l’accesso ad essa è sempre soggettivo. Perciò ogni posizione estrema che escluda l’uno o l’altro dei due lati del dilemma non è né vera, né realistica”.

“Ma che cosa vorresti dire sostenendo che la verità è oggettiva, ma l’accesso è soggettivo? Se il mio matrimonio non funziona e io mi innamoro di un’altra, lascio mio moglie e vado a convivere con l’altra, per la Chiesa questo non è oggettivamente accettabile. In cosa consisterebbe l’accesso soggettivo a questa verità?”. “Beh, ci possono essere mille motivi per cui il tuo matrimonio non va, motivi che dipendono da te e da tua moglie, cioè sono soggettivi. Potrebbe essere che davvero la scelta iniziale del vostro rapporto sia stata sbagliata, cioè pensavate “fosse amore, invece era un calesse”. Ma potrebbe essere che quell’amore ci fosse davvero all’inizio e poi non sia stato coltivato, perché la vostra condizione esistenziale e psicologica non vi ha permesso di fare quei passi comuni di sviluppo di una relazione che sono necessari per mantenerla viva. Oppure potrebbe essere che, pur essendo stato possibile crescere nell’amore, non lo abbiate fatto per scarsa volontà e non per impedimenti effettivi, e quindi abbiate lasciato morire qualcosa che c’era. Capisci che le valutazioni etiche di queste situazioni sarebbero molto diverse?”.

“Certo, capisco, ma scusa, questo vuol dire che non esiste un definizione oggettiva di amore”. “No, un momento. L’amore oggettivamente è la donazione di sé all’altro e l’accoglienza dell’altro a te, per costruire una condivisione di vita sempre più “intera”. Poi, in italiano, la parola amore vuol dire anche mille altre cose, ma se vogliano descriverne l’essenza, al di là delle chiacchiere, questo si può dire oggettivamente. Solo che donazione di sé, accoglienza dell’altro e condivisione di vita sono sottoposti, nella loro effettiva possibilità di esistenza, alle condizioni esistenziali che le singole persone hanno o non hanno. Perciò l’amore è definibile oggettivamente, ma l’accesso all’amore è sempre legato alla condizione della singola persona”.

“Ma scusa – continua il mio collega – a che serve allora dare una definizione oggettiva se poi la valutazione etica è sempre legata alla condizione soggettiva? Non è una contraddizione? A me sembra che sia molto più coerente ammettere che la definizione oggettiva non esiste”. “Non sono d’accordo – ribatto io -. Anzi se non esiste una oggettività, la valutazione etica è insignificante e ogni situazione avrà sempre ragion d’essere così com’è, rendendo possibile solo un’auto approvazione o un’autocondanna, di cui resta “signore” solo il soggetto, impedendo una condivisione sociale sufficiente del valore. Se invece esiste una oggettività, allora si può valutare caso per caso, tenendo fisso lo sguardo sul valore oggettivo, per far emergere quanto ogni persona sia vicino o lontano a quell’oggettività. L’accesso effettivo al bene è sempre graduale, mai aut-aut, ma una gradualità ha senso se esiste un minimo e un massimo oggettivi su cui la scala si struttura”.

“Beh, questo modo di vedere lo posso anche approvare, ma mi sembra che non sia quello della Chiesa. La Chiesa ha sempre detto che bene e male si dividono in modo netto e chiaro, non in modo graduale”. “Non è così. Che la maggioranza della teologia morale abbia sottolineato spesso questa divisione netta e non graduale è vero, ma la tradizione della Chiesa conosce anche sant’Ignazio di Loyola, sant’Alfonso Maria de Liguori, Karl Ranher, per citarne alcuni, che hanno invece mostrato delle vie per tradurre l’oggettività etica nelle condizioni soggettive delle singole persone. Come vedi Francesco non inventa nulla, ma al massimo recupera tracce di tradizione cattolica un po’ secondaria, ma non estranea al vangelo”.

 

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