Qualche domenica fa ci siamo ritrovati come comunità di Seminario in un incontro cittadino con la presenza del clero, dei giovani e di qualche adulto. L’incontro era stato pensato per far conoscere i seminaristi e per renderci conto – nella concretezza della presenza e della relazione personale – di ciò che le persone e i giovani si aspettano da parte dei futuri preti.
Abbiamo assistito ad una diatriba – iniziata da un anziano settantenne – abbastanza singolare e per certi versi simpatica: ci diceva che tra le cose più importanti che il giovane prete dovrebbe avere, deve esserci necessariamente l’abito, il colletto! E tutto questo affinché il prete sia identificabile e riconoscibile rispetto alla massa dei laici.
Ci chiediamo: è davvero importante l’uniforme in nigris o grigia o secondo le mode contemporanee anche gialla o verde o con palline à pois, ma con il colletto ben in vista? È l’abito che rende identificabile il prete secolare che tra l’altro, proprio in virtù del suo status di secolare ossia di non appartenente a nessun ordine religioso dovrebbe vivere il saeculum, ossia il secolo, la generazione contemporanea, la propria epoca e il proprio tempo? E inoltre ci chiediamo, perché per la sensibilità di alcuni è ancora così necessaria l’identificazione esteriore?
È evidente che la questione colletto è rivelativa di una discussione ben più ampia e che riguarda il ruolo e l’identità stessa del presbitero in mezzo al popolo.
Giovanni Paolo II nel 1982, rispondendo ad una questione “di abito ecclesiastico” posta dai presbiteri della diocesi di Roma, rispose ricordando il valore ed il significato di tale segno distintivo, “non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell’esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio”. Anche il Codice di Diritto Canonico al can. 284 parla di “abito ecclesiastico” pur inserendo i chierici (ossia gli ordinati) all’interno dell’unico capitolo intitolato De Popolu Dei (Il popolo di Dio).
Ci sia consentito in questa breve riflessione ricentrare la problematica a partire dal ruolo e dall’identità del prete diocesano senza entrare nel merito degli orientamenti tutt’ora vigenti, anche se per lo più non rispettati nella prassi. L’abito ecclesiastico dovrebbe ricordare al prete e ai fedeli la sua identità, ma è davvero così fragile questa identità tanto da essere necessaria una uniforme per ricordarlo a sé stessi prima e agli altri poi?
Nei Vangeli quando si parla dei discepoli di Cristo nel mondo si fa riferimento a elementi essenziali ma non identificabili nella loro pura essenza: luce e sale (Mt 5,13-16). Queste le realtà con cui Gesù identifica i suoi discepoli, elementi che per esercitare la loro funzione devono dissolversi, scomparire. Il sale da solo infatti non si può mangiare, né tantomeno il lievito, così come non si può fissare la luce. C’è dunque un elemento di dissolvenza necessaria nelle realtà evocate da Gesù per cercare di spiegare ai suoi discepoli – e quindi anche a noi – l’essenza della loro identità: dare gusto e vita nuova alla massa, far lievitare la vita e infine scomparire.
Non quindi eserciti di forze speciali identificabili per l’uniforme, ma testimoni talmente innamorati del Vangelo che fanno di Cristo il caso serio della loro vita sino al punto da averne preso la forma (Gal 4,19) imitandolo nel dono di sé. L’uni-forme è dunque necessaria ma riguarda la sequela, il discepolato e le scelte che facciamo nel segreto della nostra coscienza; è quella la dimensione che gli altri notano anche al mare o in costume.
Eppure, soprattutto in Francia e per certi versi anche in Italia, sta tornando il nostalgico desiderio di abiti e riti austeri e sacri che abbiano il fascino dell’eterno e di una certa identificazione con lui, mettendo in secondo piano “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” che dovrebbero essere le stesse “gioie e speranze, tristezze e angosce dei discepoli di Cristo” – almeno stando al proemio della Gaudium et Spes.
Purtroppo la storia e i dati contemporanei confermano che l’identificazione con il sacro porta solo ad esercitare abusi di ogni genere. La questione allora non è “colletto sì- colletto no”, in molti casi è necessario per decoro e per necessità così come in molte altre è ridicolo, ma il modo con cui da preti ci concepiamo nel mondo vivendo anima e corpo la conformazione al Signore Gesù. Non è questione di moda- ultimamente è stata riesumata anche l’accusa di modernismo – né di protezione dal peccato, ma realtà ancora più profonda che è quella dell’identità del presbitero diocesano secolare che sta nel mondo.
Tornando alla riunione di qualche domenica fa, un giovane ventenne del gruppo giovanile, rispondendo alle continue provocazioni dell’anziano signore che vedeva nella dissolvenza del colletto la dissolvenza della Chiesa (e forse anche della sua stessa fede), disse: “a noi giovani interessa solo che i preti ci capiscano e ci stiano accanto, aiutandoci a crescere. Poco ci interessa del loro vestito!”.
Papa Francesco parla di preti che facciano odore di pecore, che abbiano il ritmo del cammino del popolo santo di Dio e che amino il Signore come fratelli nella verità della propria umanità. E questo dovrebbe bastarci come segno di riconoscimento.
Il sacerdozio è una professione? Si può essere professionisti del Sacro, con la divisa che identifica il ruolo?
C’è qui il grande tema del sacerdozio battesimale..non siamo tutti sacerdoti, non portiamo tutti il Sacro in noi?
Perché questa casta, separata dagli uomini, che vanta un accesso privilegiato a Dio, e che pretende di farsene mediatrice?
Forse, il disagio verso l’abito, nasconde questa domanda che sale alla coscienza, e allora la coerenza, mi dico, non è più verso un ruolo/appartenenza scelti, ma con la richiesta di senso che sale da dentro.
Quando un prete va nel mondo, il segno distintivo evidenzia una separazione tra gli uomini.
Allora, forse, il rifiuto del segno indica una volontà unificatrice; il sacerdozio è sempre esistito, non si tratta di abolirlo, ma di ridefinirne il ruolo e le funzioni. La Vita rifiuta l’immobilismo, e il ribollio interiore, sfocia per forza in una necessità di cambiamento esteriore..
L’abito,o altro segno identitaria nel caso di una religione incute rispetto perché fa pensare a Colui che si riferisce. Oggi per la società così multietnica e laica e un segno di coraggio.Se si pensa come qualsiasi nome di uomini di cultura o altro si citano a esempio,mai Gesu Cristo.,i suoi comandamenti non fanno parte di quel libero pensare oggi supportato da leggi e altre scelte di vita.Il concetto di Pace e uno, dei tanti altri.Si preferisce non vedere la realtà che si produce
@Manfridi
Ma quando officia ha paramenti diversi e questo va bene.
Al di fuori non basterebbe una spilla ‘CROCEFISSO”?
Bisognerebbe capire che ci sono Preti collarati, Preti std e Preti cui il talare diventa un impedimento, una camicia di forza ( cfr luigi guerrini…)
Bisognerebbe prima rispondere a qs domanda:
La gente comune COME vede/sente i talarati?
Rispondendo forse si capirebbe luigi…
In tutte le Religioni e in tutte le Confessioni cristiane esistono indicazioni per il vestiario quotidiano e per quello adoperato durante il culto, sia per i ministri dello stesso e a volte anche per il popolo. Le vesti “distintive” sono poi proprie di varie attività professionali laiche, dai camici medici alle uniformi dei vari corpi armati. L’abito non “dice” la coerenza deontologica di chi lo indossa ma ne indica i compiti. Ovvio che sia inesatto identificare nell’abito una persona, che è sempre molto di più di un ruolo che “riveste”. Altrettanto importante non negare il senso e il segno che l’uso dei segni esteriori richiamano.
Ruolo e dignità, ma anche spersonalizzazione … e allora IO CHI SONO ? un numero … una funzione ?
Separa e difende da …che cosa ? le tentazioni ?
Mi hanno messo la VESTE a 14 anni …non ero prete che potesse confessare !!!
Una opportunità per chi ? per che cosa ?
per una occasionale e comoda fruizione di un “servizio” ? di una conversazione ? QUANTA EFFICACIA in ordine alla FEDE?!? sacramentalizzazione o superstizione !!! e le relazioni ? la comunione ? la comunità ?
CONTINUO a interrogarmi …ma appena ho potuto la ho tolta e …ANCHE SENZA … PERCHE’ SENZA ho potuto VIVERE e FERQUENTARE AMBIENTI cosiddetti laici e pubblici con la mia e altrui libertà dei figli di Dio senza i CONDIZIONAMENTI di un ABITO che in quei luoghi era IMPROPRIO
Un prete mi ha raccontato che proprio perche’ indossava la talare , un giorno in un lungo viaggio aereo , una hostess gli chiese di essere confessata da lui.
A volte vedere un prete puo’ accendere nell’ animo il desiderio di riconciliarsi con Dio . In questo caso non ha importanza se il prete sia un modello di virtu’ personali oppure no, e’ comunque un prete e a lui ci si rivolge proprio per l”abito ” che porta .
Sorprende che si tiri in ballo Fulton Sheen, un raccapricciante esempio di clericalismo. Faccio notare che Gesù era laico perchè ha abbattuto ogni regime di separatezza sacrale. Le prime comunità cristiane erano laiche e nessun ministero aveva caratteristiche sacrali. Il clericalismo è la causa di molto mali nella chiesa perchè nel corso dei secoli ha edificato un regime di potere basato sul sacro. Tutti gli abusi che registriamo oggi nella chiesa (abusi di potere, abusi spirituali, abusi sessuali, abusi di coscienza, abusi psicologici, abusi dottrinali, abusi sui minori, …) originano dal clericalismo. Oggi occorrono profonde riforme strutturali per ridare alle nostre comunità il volto genuino della fede.
“Una tonaca o un abito talare non fanno il prete o la suora, così come l’acqua non fa il battesimo, il pane non fa l’eucaristia e l’olio non fa l’ordinazione sacerdotale, ma sono segni importanti del mistero che rappresentano. Alcuni dicono che l’abito e il collarino ci separano dal mondo… Esattamente! Il nostro destino è quello di essere un “segno di contraddizione” e di essere diversi dal popolo. Questo è ciò che il Signore Gesù vuole da noi: che siamo NEL mondo, ma non DEL mondo.”
(Venerabile Fulton J. Sheen, da “Those Mysterious Priests” 1974)
Veramente tutti i cristiani sono nel mondo ma non del mondo. Perciò tutti con un abito distintivo?
Non si capisce però perché ci si debba uniformare a portare un abito qualunque, un abito che non identifichi un ruolo sociale. Un grembiule, per esempio in certi luoghi l’uomo lo indossa come segno di un lavoro che lo identifica, e con quanta dignità viene indossato! Inoltre la Bibbia narra che Dio stesso ha dato indicazioni di un abbigliamento sacerdotale, e questo a suo onore, e forse anche in quella veste a essere riconosciuto da tutti., così come a non dimenticarsi di essere prete! Non è l’abito che fa il monaco, è già stato detto ma è anche vero che è importante riconoscere un prete per avvalersi di un servizio.fuorichiesa. Forse che anche da laici non si ricorre all’abito quando si vuole dare segno di se?Gesu aveva una veste senza cuciture…. anche un abito ha la sua importanza a essere riconosciuti. Nel caso del clero Implicito il ricordare Cristo, e a quale servizio egli sia chiamato a svolgere nella società.