Il sinodo delle Chiese della Romagna – 2

Questa immagine va letta in modo stratificato, come quando si usa “google map”
24 Ottobre 2022

Il secondo obiettivo del mio lavoro (qui il primo post) era quello di evidenziare, con uno sguardo sintetico, lo stato di salute delle Chiese di Romagna. Questa immagine va letta in modo stratificato, come quando si usa “google map”.

A livello macro, dall’alto, ad una certa distanza dal suolo, si nota la dominante emotiva di fondo, la“crisi”: fatica, sconforto, immobilismo, indifferenza, disorientamento, aridità, sono parole presenti nei report. Ne deriva un atteggiamento diffuso che sembra di “difesa” da un nemico percepito a volte all’interno stesso della Chiesa a volte fuori, in cui si possono individuare tre stili difensivi, a seconda delle comunità o delle persone.

Uno stile “passivo”, dove l’avanzata del nemico sembra ineluttabile e si sopravvive nel “si è sempre fatto così”, nella speranza di un miracolo, o dell’arrivo del regno o del “ci penseranno altri, non è compito mio”; uno stile “aggressivo”, dove il dovere di mantenere le posizioni sul campo spinge all’irrigidimento delle forme, delle regole, delle verità, al senso di superiorità rispetto a chi non è come noi, e al giudizio facile e non richiesto; uno stile “remissivo”, dove si cerca di venire a patti col nemico, anche rinunciando a qualcosa del proprio territorio, in nome della differenza tra cose essenziali e non essenziale della propria identità, pur di sopravvivere.

A questo livello sembra che le nostre Chiese non sappiano più fare a “stare”, “rimanere”, “abitare” la realtà. La pandemia, forse, ha svelato ciò che già c’era: immersi in un cambio d’epoca, espresso molte volte nei report con l’immagine della barca nella tempesta, per non annegare non entriamo più in relazione con la vita reale. Anche perché abbiamo l’impressione che ci manchino gli strumenti culturali per poterlo fare, perché continuiamo ad usare categorie concettuali che non dicono più nulla a nessuno.

Qui si evidenzia soprattutto la necessità di un linguaggio nuovo che le nostre Chiese cercano di costruire, non per “adeguarsi” al mondo, ma per poter mettersi davvero in comunicazione con la realtà, che permetterebbe di vivere la fede “impastata” con la vita di ogni giorno e in cui noi potremmo comprendere il mondo e il mondo potrebbe, più facilmente, comprendere noi.

A livello del suolo. Quando la lente si avvicina al terreno e ci permette di vedere nel dettaglio le nostre realtà ecclesiali, si scopre, però, anche qualcosa di diverso.

La dominate emotiva resta, ma si frastaglia molto e, oltre la “crisi”, si notano anche delle “enclave” di vivacità ecclesiale, di desiderio di partecipare alla vita delle comunità, di impegno leggero a testimoniare con franchezza la Parola di Dio. Certe comunità davvero fanno ancora trapelare il senso della gioia di essere cristiani e la gratitudine a Dio, che permette di camminare ancora assieme a dei fratelli di fede.

Si intravvedono gruppi che cercano, con intelligenza e amore, esperienze di “confine”, dove la testimonianza e la condivisione della carità è ancora capace di rendere attraente e apprezzabile quella comunità. Dove non prevale la difesa, ma l’accoglienza; dove si ritrova un linguaggio che non si preoccupa tanto e subito di dare risposte, quanto di ascoltare, condividere e mantenere aperte le domande di chi si incontra, affinché possa fare esperienza del sentirsi accolto in queste domande, prima e di più che di trovare risposte.

Certo, queste realtà non fanno “clima” ancora, ma non è giusto occultarle in nome del grigio che le circonda. Anche perché, quel grigio non è per nulla uniforme. A guardare bene, i rapporti interni alla Chiesa sono molto variegati. Certo la parola “frammentazione” ricorre spesso nei report, l’impressione diffusa è quella di comunità e gruppi autoreferenziali, chiusi, spesso dei “cerchi magici”, in cui non sempre le relazioni sono poi così amichevoli. Ma anche in questi gruppi, a volte, si cerca di rendere un servizio in cui si crede per davvero e non solo per dovere. Non nascondiamo che in essi si rischia una sorta di “clericalismo laico” o di vivere quel gruppo come un rifugio, un nido. Ma si trovano anche gruppi in cui davvero chi arriva può dire: “c’è sempre qualcuno che ti aspetta”, soprattutto se si tratta di movimenti o famiglie religiose, più che parrocchie.

A livello del suolo poi si vede bene il punto di maggiore criticità della vita interna delle nostre comunità: le relazioni preti – laici. Il punto nodale sembra essere la differenza tra chi pensa di aumentare la collaborazione dei laici con i preti, fermo restando che il prete deve essere il centro attivo della pastorale della comunità in ogni settore, e chi ritiene che sia giunto il tempo di passare alla corresponsabilità in cui il ruolo di centro attivo è della comunità tutta, e laici e preti hanno ruoli diversi, ma complementari e corresponsabili. Al momento, sembra prevalere ancora la prima tendenza, in cui i laici sono coinvolti solo a livello operativo, rendendo spesso, inutile il sistema attuale degli organi di rappresentanza ecclesiale.

Questo stato di cose trova la sua radice nel clericalismo ancora diffuso, e, a volte, anche promosso dagli stessi laici, oltre che dai preti. Sia a livello parrocchiale che a livello diocesano, l’impressione è d’una organizzazione ancora molto rigida e gerarchizzata. Anche qui però non possiamo occultare la presenza di realtà in cui il sacerdote è, invece, un pastore presente, vicino, non un funzionario o un controllore, che si è convertito da una pastorale di massa a una pastorale del tu per tu.

Forse, la nota inattesa è una certa persistenza, da parte dei laici più impegnati, a voler vivere la comunità come una “corte” del prete e ad essere poco disponibili a che il proprio cerchio ristretto abbia confini non netti, aperti e allargabili anche ad altri. Laddove ci sono preti saggi questo non avviene, ma non sembra essere la maggioranza dei casi. E i laici non appartenenti ai “cerchi magici” che sono stati ascoltati dichiarano spesso come ciò sia il primo e maggiore ostacolo ad un loro impegno pastorale maggiore.

A livello profondo. Se con la lente scendiamo ancora di più in profondità, l’immagine si fa ancora più articolata, permettendo di evidenziare, anche qui, alcune tendenze.

Intanto una diffusa sensazione che viviamo un’esperienza di Chiesa che non rimanda abbastanza al divino, dove si percepisce una scarsa cura effettiva della spiritualità. Appesantita dal ritualismo, dal formalismo, dai dogmatismi e moralismi, la vita di fede sembra aver perso il senso del mistero, la sua bellezza e la gioia di seguire Gesù. “Una Chiesa che non invita mai abbastanza al silenzio, alla riflessione e alla preghiera, ma si espone e grida i suoi punti fermi, fa davvero credere che il rapporto con Dio non sia così importante, ma lo sia piuttosto difendere posizioni, diritti e dogmi”. Per questo poi fatichiamo ad essere testimoni credibili e ci prestiamo ad un “fare” pastorale che non è supportato da un “essere”.

Saremmo però disonesti se non citassimo, qui, le tante narrazioni, soprattutto di laici, che per trovare “pane” per la propria fede, hanno “emigrato” ecclesialmente, andando alla ricerca di quel buon tesoro che la tradizione cristiana possiede, e rintracciando in altri luoghi ecclesiali forme, stili e guide spirituali con le quali stanno facendo crescere davvero la loro fede.

Queste narrazioni mettono la luce su un problema essenziale per le nostre chiese: ritrovare una fede che parli al cuore, al corpo e alla testa, come molti report rimandano. L’impressione è che le nostre comunità, sul piano di fede abbiano “perso i sensi”, non riescano a vivere la fede se non a livello di pensiero e poco più. A corollario di ciò si assiste, sempre più spesso, ad una ricerca della propria identità cristiana come di un “totem” da conservare gelosamente, che ci dica che siamo vivi e chi siamo. Rifuggendo così, però, il dialogo con chi è diverso da noi, sia dentro che fuori la Chiesa. Resta, invece, ancora presente anche chi ha sperimentato davvero il senso dell’essere amato da Dio, e di poter consegnare a lui, con libertà e gioia, la propria vita e la propria identità, perché sa che vita e identità sono da spendere non da conservare.

 

Una risposta a “Il sinodo delle Chiese della Romagna – 2”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    Palpitante. Io “so”, senza “conoscerlo”, quanto Gil abbia SOFFERTO nello scrivere qs considerazioni. Lo so xchè soffro anch’io.
    Soffri x la mancanza di fantasia, x l’incapacità a sognare..
    I.e. la renitenza a CAMBIARE, a mettersi in gioco. Resilienza al negativo.

    Sapete, lo devo aver già scritto, ma trovo denso di significati il parallelo con la sx italiana. Ambedue chiamate al CAMBIAMENTO.Ambedue resilienti.
    Dichiarazione di stamane:
    NOI PUNTIAMO SUI DIRITTI.
    Zan/immigrati/aborto/morte.
    C’è una parola che emerge dal post di sopra ( anche nel mio libro🙃😷)
    REALTÀ.
    Ma cosa interessano oggi alla gente?
    Quali probls ha davvero oggi il popolo?
    Forse che teme per il suo pane, forse che il vero PANE non è più né significativo né appetibile??
    PS estraggo una seconda parolina scritta da Gil : GIOIA!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)