Ringrazio Gilberto che rilancia una questione che può e deve essere affrontata tenendo insieme moltissimi aspetti. Mi esprimo senza pretese e senza ricette, a partire dal mio ministero di prete negli ultimi tre decenni.
In evidenza sta anzitutto la questione di (ri)educare chi presiede la liturgia (in tutte le sue forme: dunque anche e soprattutto nella forma eucaristica) ad essere un credente animatore, suscitatore, ‘provocatore’ di ministerialità, rinunciando alla semplificazione che per la liturgia basta un solista, un personaggio che attira, stupisce, convince. Ben vengano figure che non si accontentano di ricalcare forme e parole in una ripetizione morta, che hanno abbastanza sapienza da non perdere l’essenziale (la Pasqua che viene ripresentata qui e ora per il bene di un popolo), che sono abbastanza umili da non massacrare la bellezza di idee pensieri e contenuti affidatici dalla vita spirituale di chi ci ha preceduto, che sono abbastanza illuminati da restare in ascolto del vivere proprio e altrui e cercano gesti, parole, segni che riescano a consegnare un’esperienza a chi partecipa. Troppe cose, forse…
La Messa non è un fatto privato, ma difficilmente – nelle forme comunitarie basic che sono ancora le Parrocchie (e le loro trasformazioni in corso) – si alimenta una cordialità, un’empatia che consenta di andare oltre la formalità dell’assemblea eucaristica. Per il nostro individualismo occidentale, senz’altro, e perché non abbiamo sufficientemente educato a forme adulte di spiritualità comunitaria, accontentandoci di lasciare che tutti trovassero nel ‘supermercato religioso’ prodotti da acquistare, pratiche da attuare, microcosmi devozionali da frequentare a prescindere. E poi anche perché, spesso, il circolo di quelli che per svariate ragioni sono più coinvolti nelle vicende pratiche e di servizio è di frequente ammalato di clericalismo. Un cattolicesimo escludente, che può essere un po’ risanato azzerando – proprio nella liturgia – le appartenenze ‘partitiche’ (io sono catechista, io lettore, io volontario Caritas, io educatore, io barista, io…) e ripartendo dall’obbedienza radicale che è al Vangelo. Le forme non hanno un ordine predeterminato di onore e importanza, nascendo tutte dalla sequela di Gesù. Questo ci salverebbe da molte esibizioni e molti (pre)giudizi.
Le comunità cristiane esistono, ma sono per loro stessa natura ‘a strati’ o a cerchi concentrici. L’evento generativo della morte e risurrezione di Cristo sta al centro, e con esso si misura continuamente la vicenda di chi lo vuole in qualche modo prendere in considerazione nella sua vita. I discepoli non sono tutti uguali, non tutti agiscono parlano e vivono allo stesso modo, ma a tutti occorre continuamente riproporre la domanda “ma dunque chi è Cristo per te? Cosa c’entra con il tuo esistere?”. Occorrono proposte sempre più semplici, coraggiose, puntuali, per aiutare le persone a riconoscersi, a riorientarsi, a sperimentare la Parola – quante volte l’abbiamo detto – come una notizia buona oggi, non certo secondo la logica umana che intende per ‘buono’ ciò che ‘va sempre bene’, e non nel senso di un’avventura dove la mia umanità non è mai abbandonata a sé stessa.
Lo stupore delle persone a cui chiedo di aiutarmi a trovare la forma liturgica o le letture ‘giuste’ per un funerale, o dei genitori a cui ricordo che il gesto di battezzare un figlio impone loro di mettersi in gioco almeno quanto il fatto di averlo messo al mondo, o dei ‘fidanzati’ ai quali consegno il compito di raccontare la loro scelta di vita nella celebrazione del loro Matrimonio… mi conforta – perché le persone sono in genere attente e disponibili – e mi provoca a non dare nulla per scontato (e a non cullarmi in ideologie e sogni di un cristianesimo che non esiste).
L’incarnazione e la trascendenza, che nell’Eucaristia avvengono nel pane che si sostanzia della vita stessa di Cristo, accadono non perché lo decidiamo noi, ma perché la sorprendente volontà d’amore del Padre fa incontrare la nostra offerta, quel che siamo, con la infinita sua capacità di amare svelataci nel Figlio. A noi tocca presentare il pane della storia che viviamo, con mani libere da attaccamenti, egoismo, mormorazione, perché Lui trasformi quanto non ci basta in nutrimento abbondante.
La messa è la celebrazione di questo stupore, e così ogni liturgia che i cristiani – in forme e modi diversi – si ritrovano a vivere insieme: meno si appiattisce su un rituale e più assomiglia all’evento performante dell’arte, della poesia, della musica e meglio è. E con questo abbiamo veramente il dovere di ‘tirarci su le maniche’, inventare e sperimentare e probabilmente anche osare, rimettendo in evidenza – come scrive Gilberto – “l’esistenza di un senso trascendente le cose e allo stesso tempo che questo senso sia sempre costantemente incarnato dentro la vita reale”.
È lo stupore che genera la gioia: ma non semplicisticamente l’allegria e la spensieratezza (di cui peraltro in questi ultimi tempi abbiamo qualche nostalgia). La percezione lieta che l’orizzonte è un altro, che le persone sono tutte bisognose di cura e vicinanza, che possiamo accogliere la vita e le cose senza invece pretenderle come un diritto. Ma tutto questo non riguarda la dimensione del benessere, cui la nostra società cerca invano di rinchiuderci. Forse siamo più nell’ottica della perfetta letizia francescana, che non è lo stare bene ‘anzitutto io’ ma riconoscere che il bene è tale solo ed esclusivamente se è condiviso. Dobbiamo davvero riscoprire la vocazione di ogni essere umano alla compassione, data e ricevuta, così come ce la racconta il Vangelo.
Vero, meno ci si appiattisce nel rituale, più la celebrazione esce dalla partecipazione muta, dove è il celebrante che da voce e qualche volontario lettore risponde: se però si dà il la a una frase cantata, magari qualcuno segue e per chi non crede avere voce, questo è gradito. Vale naturalmente anche per quel celebrante che animato da uncerto desiderio di sollecitare l’interesse dei fedeli apre la Parabola con un parlare più al nostro oggi, se magari percependo anche ansie e dubbi incoraggiamento da ciò che Si vorrebbe portare uscendo di chiesa. Ogni Parabola risponde a questo, se esplicitato all’oggi, all’uomo di oggi. Il Santo Padre è un esempio, è quando necessario osa, perché gli accadimenti di oggi sono molto ombrati e c’è bisogno di chi alza la lampada sopra il moggio. Se un prete e con lui i ministranti osano dare alla messa un colore più caldo, ecco ciò per cui si entra e si desidera tornare alla Messa. Avere percezione che Gesù Cristo è presente.