Il tema dell’immigrazione è uno di quelli in cui maggiormente la Chiesa sta esercitato la sua profezia tra gli uomini di oggi. Un tema che porta però con sé un’inquietudine e una paura, che impediscono di affrontare costruttivamente il problema.
L’altra mattina il ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, Andrea Riccardi, è intervenuto all’Università Salesiana di Roma, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Nella sua prolusione ha legato strettamente il tema dell’immigrazione a quello della speranza e del futuro.
I dati parlano chiaro: in Europa ci sono 33 milioni di stranieri, tra comunitari ed extracomunitari, ma se aggiungiamo coloro che, pur essendo nati all’estero, sono diventati cittadini europei, raggiungiamo i 50 milioni (il 9,5% della popolazione). In Italia gli stranieri sono 3.800.000. Perché sono così tanti? Detto in termini un po’ brutali ma chiari: perché non facciamo figli e invecchiamo. Quindi abbiamo bisogno di gente che lavori (e ci paghi le pur magre pensioni), ma soprattutto abbiamo bisogno di gente che porti quelle idee e quella innovazione, che un popolo di vecchi non può avere.
Non solo i dati, ma anche i fatti parlano chiaro, e dicono che gli stranieri sono già tra noi; che, come dice il fondatore della comunità di S. Egidio, «al di là delle difficoltà, già viviamo insieme». Uno su dieci dei nostri lavoratori è straniero, il 15% dei matrimoni è misto, gli alunni con genitori non italiani sono il 36% alle elementari, il 22% alle superiori. Gli stranieri producono ormai il 10% del nostro Pil. Realisticamente, potremmo farne a meno?
La convivenza c’è già, ma occorre disegnarla, perché non sia solo fonte di conflitti e insicurezza, ma anzi diventi arricchimento per tutti, per chi accoglie e per chi è accolto. Su cosa fondarla? Secondo Riccardi, sul fatto che «siamo diversi per storia, uguali nei diritti e nella visione di un futuro comune».
Convinto che «la civiltà del domani sarà una civiltà de convivere», Riccardi non si nasconde i problemi che possono nascere dalla convivenza. L’integrazione è un lungo processo che implica un duplice movimento: «l’immigrato incontro a noi. Ma anche noi incontro allo straniero». In questo c’è una «grande sfida culturale ed educativa, ma anche una necessità di empatia, di una simpatia che faccia cadere i muri, che aiuti ad accettare il fatto che le identità si ereditano, ma si costruiscono.»
Il fantasma identitario è uno di quelli più richiamati da chi ha paura dell’immigrazione, soprattutto tra i cattolici: il pericolo di perdere la propria identità, di vedersela distrutta da chi porta con sé valori, riferimenti culturali e fedi diversi. Ma, dice Riccardi, «costruire qualcosa di nuovo non significa perdere parte di quel che si è ricevuto, della propria identità.» Semmai, «c’è sempre un lavoro di riaggiustamento, di aggiornamento, da fare. In nessun momento l’identità può dirsi “finale”.» Ciò che conta, nel rispetto delle differenze, è condividere i valori fondamentali della nostra cultura umanistica: «il riguardo della vita, la centralità della persona, il valore della famiglia e del lavoro, lo stato di diritto sono i pilastri della nostra civiltà e, insieme alla lingua, il cuore di tutto ciò che possiamo e dobbiamo trasmettere agli italiani di domani, qualunque sia il loro cognome o il colore della loro pelle.»
La Chiesa ha sempre avuto una “politica” inclusiva e accogliente nei confronti dei migranti. L’ha attuata attraverso la Caritas e Migrantes, le associazioni, i tanti Centri di accoglienza e le case famiglia. L’ha fatto anche attraverso i documenti ufficiali e gli interventi dei suoi vertici, anche contestando apertamente alcune scelte politiche. Ad esempio, quando fu approvata la Leggi Bossi-Fini la Chiesa l’ha contestata nella lettera e nello spirito, ricordando che i migranti sono persone, non braccia.
Purtroppo, non è stata ascoltata dai Governi di centro-destra, che hanno speso per le misure di contrasto (“contrasto”, non regolamentazione) all’immigrazione, quattro volte si più di quanto hanno speso per l’integrazione. Seguendo la logica del “facciamoci del male”, perché se abbiamo bisogno di immigrati, ma facciamo di tutto per non integrarli, è chiaro che stiamo costruendo il clash, cioè lo scontro tra mondi e culture. Cioè stiamo lacerando la società e costruendo quel futuro incerto che vorremmo evitare.
Anche tra i cattolici praticanti molti sono convinti che non ci sia alternativa al clash e condividono le politiche discriminatorie e di contrasto. Invece, questo è uno di quei temi su cui oggi la Chiesa può dare un messaggio di speranza, di quella speranza di cui c’è tanto bisogno.
La presenza regolare e legale degli immigrati non significa che il futuro non c’è o, se c’è, è buio. Significa invece che le cose stanno cambiando e sta a noi cittadini fare in modo che cambino in meglio. Andrea Riccardi ha citato Pavel Florenskij, il sacerdote russo ucciso in un gulag, che diceva; «Siamo nati in una rapida della storia, in un punto di svolta dell’andamento degli avvenimenti storici». Niente paura, però: «I posteri invidieranno che non sia toccata a loro la sorte di essere testimoni della trasfigurazione del quadro del mondo». Insomma, è un periodo in cui ci è chiesto di immaginare e costruire il futuro, «è un tempo in cui vengono e verranno risuscitati in noi parole, sentimenti, scelte, sogni», ha concluso Riccardi. «Perché è un tempo in cui è e sarà possibile costruire qualcosa di degno per tutti. Perché è e sarà il tempo della speranza».