Nella Evangelii Gaudium (2013), papa Francesco, enunciava quattro principi che “orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune”. Il primo di questi quattro principi è Il tempo è superiore allo spazio. Al riguardo, al n. 223, il Papa scrive “Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce.”
Queste ultime parole mi sono tornate alla mente una decina di giorni fa, quando la Basilica di Santa Sofia ad Istanbul è tornata ad essere moschea. C’è poco da spiegare: con questa decisione, tremendamente rassomigliante ad una riconquista, è stata data priorità allo spazio fisico, alla sua occupazione, come se il tempo, con le sue stratificazioni, non esistesse, a rischio di compromettere processi di convivenza pacifica.
La storia dell’edificio è facilmente reperibile. L’attuale struttura, la terza chiesa edificata in quella collocazione, è stata (ri)consacrata nel 562 come chiesa greco-cattolica. Dopo lo scisma d’Oriente (1054) è stata chiesa ortodossa (tranne una breve parentesi cattolica all’epoca delle crociate) e tale è rimasta fino alla caduta di Costantinopoli (1453), quando fu convertita in moschea. Nel 1935 il Presidente turco Ataturk aveva disposto la trasformazione in area museale laica, fino alla decisione del Presidente Erdogan di riconvertirla a luogo di culto islamico, per la preghiera del venerdì.
La prevalenza data all’occupazione dello spazio, a scapito della ricchezza scandita dal tempo, ha la sua manifestazione visiva nella copertura (temporanea) dei mosaici cristiani in occasione del culto islamico.
Nei giorni scorsi il nostro Giorgio Bernardelli, su Mondo e Missione, aveva raccontato un interessante precedente, sempre in campo musulmano, ma di segno opposto. Nell’aprile del 637, quando Gerusalemme era capitolata all’assalto dell’esercito dell’Islam, il Califfo Omar decise di non entrare al Santo Sepolcro in segno di rispetto nei confronti dei cristiani. Esattamente come nelle parole del Papa: non occupare spazi. La Moschea di Omar, su Saint Helena Road, segna il luogo in cui si fermò a pregare il conquistatore.
D’altra parte Luigi Accattoli, negli stessi giorni, scriveva sul suo blog “Non si può cancellare la storia che la costruì basilica e tale la tenne per quasi un millennio, né si può cancellare il fatto che poi in essa risuonò per oltre mezzo millennio l’invocazione coranica. Il museo nulla cancellava ma tutti silenziava [corsivo mio]”. Se davvero la voce della fede vuole di nuovo levarsi dai quei luoghi, anche ai cristiani dovrebbe essere consentito di poter celebrare la liturgia domenicale. È quanto aveva suggerito, con una certa audacia, il Patriarca Serbo Irinej. Lo stesso Accattoli, nel dare notizia della proposta del Patriarca, sottolineava che non si tratta di commistione di culto, ma di farsi carico della complessità della storia, come già avviene in altri luoghi. Esattamente come nelle parole del Papa: iniziare, in questo caso accompagnare, processi, segnatamente la tutela della libertà religiosa.
Tutti hanno capito che la questione di Santa Sofia ha ben poco di religioso, non sarò io a produrmi in analisi politiche. Eppure, queste riflessioni sulla destinazione d’uso di uno spazio “importante” di origine religiosa sono state l’origine di una catena di pensieri che, forse fuggiti per la tangente, hanno ridestato il ricordo di alcune foto che avevo scattato nella mia città, Molfetta.
Si tratta della volta in pietra nel passaggio coperto tra Piazza delle Erbe e Piazza Minuto Pesce. Dovrebbe trattarsi dei locali (il refettorio?) dell’antico convento quattrocentesco di San Francesco, demolito a fine Ottocento. Oggi, dopo i restauri, risplende la bellezza, semplice ed elegante, persino nella povertà dei materiali. E dire che, se la memoria non inganna, quando ero bambino, quei locali, di passaggio tra due diverse aree mercatali, ospitavano una salumeria.
Che poi la chiave di volta contenga un monogramma (di Cristo?, dei francescani?) è un altro discorso.
Chi sollevi lo sguardo ed abbia ha occhi attenti all’eleganza, alla bellezza, forse lo nota, forse lo decodifica.
O forse non è neanche importante che lo decodifichi. È più importante che si chieda quale sia la chiave di volta della propria vita.
Uno spazio di origine religiosa, anche non (più) occupato, se trattato con rispetto, nel segno della bellezza, può (ri)svegliare nelle persone domande e consapevolezze; per l’appunto, processi. Questo è quello che speriamo continui ad avvenire a Hagía Sofía, con le sue volte e i suoi mosaici bizantini, ed anche le sue iscrizioni coraniche. Patrimonio dell’umanità tutta, senza distinzione di fedi.
[tratto da http://www.diocesimolfetta.it/luceevita/]
A Beirut ieri si è verificato qualcosa di somigliante a più che scoppio, sembrava lo scoppio di una bomba atomica.Un fungo nero si è levato con deflagrazioni di quanto stava intorno provocando morti e migliaia di feriti. A guardare in TV provoca nel telespettatore uguale esclamazione ,quel “oh Dio, che è stato l’urlo impossibile dimenticarlo alla caduta del ponte Morandi. Per il broke down a Beirut. Il progr.serale TV Atlantide ha commentato e ritrasmesso proprio il lancio della bomba atomica su Hiroshima ,l’orrore di tanti civili morti,.morti a migliaia, in un fungo di gas incendiari, di feriti, incurabili! Azione riuscita , è stata definita perché ha posto fine ,bruciando il tempo, a un lungo conflitto. Certe prese di potere però, rimangono ingiustificabili nel tempo, rispetto e dignità, amore verso la persona umana non dovrebbero mai essere calpestati,,neppure a giustificarne la causa,; rimangono fatti ricordati soltanto a monito da non essere più ripetuti.