Figli di un Dio (e di una Chiesa) minore?

Perché la Chiesa italiana su alcune questioni interviene, anche con forza, mentre su altre sembra trincerarsi dietro l'ennesimo «non possiamo»?
11 Agosto 2021

Domanda (quasi) retorica: chi ha la competenza (giuridica) di stabilire le norme che disciplineranno le «misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità» (più note, ad oggi, come ddl Zan)? Ovviamente, il Parlamento italiano. Lo stesso che ha convertito e convertirà i dpcm e i decreti-legge (dei vari governi sostenuti dalla sua fiducia) che hanno normato e normano le modalità di presenza alle celebrazioni liturgiche e alle processioni (all’epoca del governo Conte permettendo inizialmente solo i funerali, ma non le messe, e oggi, con il governo Draghi, escludendole dall’obbligo di green-pass).

Ciò non toglie che sia prima – soprattutto prima – che dopo l’approvazione di qualsiasi norma, vi siano tutta una serie di soggetti (giuridici) che facciano pressione (politica) sul Parlamento (o sul Governo) perché toccati dalle norme in questione nei loro interessi – materiali o spirituali che siano. È un’attività assolutamente legittima e comprensibile, soprattutto in democrazia, soprattutto quando l’ordinamento giuridico di un paese riconosce a livello più alto delle sue fonti (ad es. negli artt. 7 e 11 della Costituzione) l’indipendenza o la superiorità di un altro ordinamento, così autolimitandosi nella propria sovranità.

Ciò spiega perché la Chiesa cattolica, sia come Stato della Città del Vaticano che come Conferenza episcopale italiana, abbia fatto sentire la propria voce, a volte in modo più discreto, altre volte in modo più altisonante, quando ha ritenuto che certi suoi interessi venissero (o potessero venire) toccati e lesi da norme approvate (o in via di approvazione) dal Parlamento o dal Governo italiano. Può non piacere la possibilità – concessa ugualmente ad altri soggetti giuridici italiani o non italiani; può non piacere il contenuto e la direzione valoriale degli interventi ecclesiali, ma alla luce dell’ordinamento giuridico italiano il tutto è assolutamente legittimo e comprensibile.

Ecco dunque, il 17 giugno scorso, la discreta nota diplomatica del Vaticano (che doveva rimanere riservata ma che è stata resa pubblica dai quotidiani nazionali il 22 giugno), volta a chiedere alcune modifiche al ddl Zan, perché valutato potenzialmente lesivo della libertà religiosa della Chiesa cattolica in Italia. Ecco, ugualmente, lo scorso anno, l’intervento ad alta voce del presidente della CEI, cardinal Bassetti, attraverso una nota del 26 aprile che dissentiva dal Dpcm Conte sulla ‘Fase 2’, in quanto ritenuto «arbitrariamente» lesivo dell’esercizio della libertà di culto dei cattolici italiani. Ecco, di recente, il vescovo ausiliare di Roma Benoni Ambarus esprimersi con fermezza e franchezza sull’ennesimo rinvio dell’applicazione delle norme regionali (del Lazio) che vietano la presenza di slot machine a meno di 500 metri dai luoghi “sensibili” quali scuole, chiese, centri sportivi, centri sociali (Avvenire, 6 agosto).

Per questo don Ben ha chiesto un incontro all’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, per «parlare con lui proprio della salute messa a rischio». Vedremo come andrà a finire, anche se non lascia ben sperare quanto avvenuto nella regione Piemonte: ad inizio luglio la maggioranza politica è riuscita ad approvare norme meno restrittive per la presenza sul territorio delle slot machine, dopo che ad aprile era stata invece costretta a fare un passo indietro per le forti proteste delle associazioni cattoliche, “capeggiate” dai vescovi piemontesi Arnolfo, Brunetti e Delbosco. Nei primi due esempi, invece, a prescindere dalle congetture sui rapporti tra Cei e Vaticano, gli interventi non sono restati senza effetti. Il ddl Zan, appena approdato al Senato, si è “impaludato” tra gli emendamenti presentati (di cui alcuni inattesi) e qualche “conta” per verificare i reali rapporti di forza dei diversi gruppi parlamentari. Riguardo lo stop alle messe, lo scorso anno, dopo pochi giorni (il 7 maggio), si giunse alla firma del protocollo che permise la ripresa delle stesse (dal 18 maggio).

Questa breve casistica conferma, nel caso ce ne fosse bisogno, che la Chiesa Cattolica – a livello universale e locale – ha la possibilità (giuridica) e il potere (culturale e politico) per intervenire quando dei suoi interessi materiali o spirituali rischiano di essere lesi. C’è invece un caso, che coinvolge migliaia di lavoratori (e rispettive famiglie) al servizio dello Stato e della Chiesa, in cui sembra risuonare da parte della Chiesa uno strano «non possiamo».

È qualche anno che gli insegnanti di religione italiani vivono la loro vita professionale scissa tra l’attesa di un concorso che ne stabilizzi la condizione lavorativa e il timore di una modalità di concorso le cui evidenti criticità (in termini di giustizia sociale, uguaglianza e verifica delle competenze) abbiamo messo in evidenza più volte (qui in breve quanto qui e qui più compiutamente argomentato). Anche un teologo di indubbio spessore, come Andrea Grillo (qui e qui), e uno dei massimi esperti di legislazione IRC, quale Nicola Incampo, hanno posto in luce i rischi concreti connessi alla modalità di concorso prevista. Per non parlare della contrarietà ad essa espressa dai delegati IRC delle Conferenze Episcopali Regionali, soprattutto quelli lombardi, e ovviamente dalle migliaia di diretti interessati (qui e qui).

Per questo, nonostante l’apparente buona notizia della recente firma di un dpcm che autorizza il ministero dell’istruzione a bandire un concorso per un terzo degli Idr precari, siamo in presenza di una modalità di concorso che (quasi) nessuno vuole, dalla base sino (quasi) ai vertici, e rispetto alla quale sono state proposte alternative senza criticità occupazionali, uguali a quelle previste o pensate in questi anni per gli altri docenti e rispettose della complessità dialettica dell’istituto concordatario dell’IRC (e della relativa idoneità a svolgerlo).

Di fronte a queste critiche (peraltro molto pacate) e contro proposte (considerevoli per quantità e qualità), non si può non rilevare che le istituzioni ecclesiali competenti (Presidenza e Segreteria della Cei, insieme al Servizio Nazionale IRC) abbiano reagito in modo paradossale (se non misterioso), come se questo concorso, pur riguardando una questione di natura concordataria (e in ogni caso posta sulla frontiera dei rapporti tra Stato e Chiesa), fosse stato concepito all’interno di una relazione basata sulla «mancanza di un confronto» tra Stato e Chiesa.

Alla parte politica si è dapprima espressa «soddisfazione» per il concorso approvato (inserito nel decreto scuola 126/19 con l’emendamento dell’on. Toccafondi di Italia Viva e poi convertito nella legge 159/19), ma stando sempre attenti a far apparire che la Chiesa italiana nulla abbia chiesto (all’inizio e in itinere) agli attori politici (mentre per la modalità criticata si è di fatto sempre addossata la responsabilità al M5s). Dopo circa un anno, in piena seconda ondata pandemica (e con il Presidente della CEI dimesso da poco dal ricovero in terapia intensiva per il Covid-19), si è firmata l’intesa con il ministero dell’istruzione prevista dalla legge stessa (159/19), ma stando sempre attenti a descrivere tale intesa in un modo che è stato poi così sintetizzato dalla diocesi di Brescia: un «documento di mero carattere procedurale che si è limitato alla verifica della coerenza con quanto previsto dall’Accordo di Revisione del concordato Lateranense, tra cui la certificazione dell’idoneità diocesana».

Ora, per definire singolare, se non incomprensibile, il primo atteggiamento dovrebbero essere sufficienti i tre esempi citati in apertura, ai quali si potrebbero aggiungere quelli dell’immigrazione, del terzo settore, dell’IMU, degli oratori, etc.: tutte questioni nelle quali la Chiesa ha il diritto e – a volte crediamo – anche il dovere di intervenire con le sue osservazioni, proposte, critiche (soprattutto quando si tratta di temi concordatari e siano coinvolti lavoratori che per metà della loro sfera giuridica dipendono dalla Chiesa stessa). Sulla (non) correttezza della seconda definizione, basti rilevare come l’intesa : a) nel punto 2 e 5 comporti di fatto l’assenso della CEI ad una normativa (l’art.1-bis della l.159/19) verso la quale, per i motivi suesposti, si poteva e doveva manifestare il proprio dissenso, invitando le forze politiche alla sua modifica o, altrimenti, a non darle seguito; b) nel punto 7 entri in modo evidente nei contenuti del programma di esame; c) nel punto 6 entri nei contenuti del bando di concorso, seppur in un modo e con intenti decisamente indecifrabili.

Alle osservazioni critiche di provenienza intra-ecclesiale, invece, le istituzioni ecclesiali competenti non hanno mai risposto nel merito, ma hanno preferito rivolgere ad esse un sostanziale silenzio, salvo un paio di comunicati del Consiglio permanente della CEI (uno più generico, l’altro un po’ più rassicurante), intervallati da uno dei rarissimi interventi del direttore dello SNIRC, volto solo a commentare brevemente la costituzione di un Tavolo paritetico Miur-Cei: in ogni caso, lasciando sempre intendere che la Chiesa «non può e non ha il potere» di fare nulla, perché le decisioni da prendere in merito ad un concorso pubblico non sono di competenza ecclesiale…

A tal proposito, senza ripetere quanto già sopra detto sul ruolo pubblico della Chiesa, aggiungerei solo che sarebbe stato preferibile che gli organi competenti della CEI si fossero assunti la responsabilità di esprimere il loro favore verso questa modalità di concorso, spiegandone i motivi e discutendo le eventuali correzioni fraterne. Sempre che i motivi non siano, come spesso si sente dire, che gli Idr – da un lato – vogliano mantenere il privilegio di non studiare per il concorso e – dall’altro lato – non siano veramente selezionati da molte diocesi (quali?) in base al merito. Nel primo caso, infatti, basta conoscere il piano di stabilizzazione dei docenti portato avanti dagli ultimi governi per capire che si sta chiedendo solo quello che è stato concesso agli altri docenti; nel secondo caso, ammesso e non concesso che si tratti di una situazione diffusa e oltremodo critica, gli organi competenti della CEI avrebbero dovuto procedere come auspicavamo (e ancora oggi auspichiamo), cogliendo l’occasione di questa crisi di sistema per sistemare, anche con audacia e creatività, gli aspetti ancora critici di tale selezione (verificando e lavorando affinché il riconoscimento ecclesiale dell’idoneità ad insegnare religione cattolica avvenisse in tutte le diocesi dopo una procedura valutativa in grado di non “sfigurare” nel paragone con quella per conseguire l’abilitazione ad insegnare le altre discipline).

Siccome ciò non è stato (ancora) fatto e ormai i nodi stanno venendo al pettine, con il rischio che tale situazione di crisi si involva in un conflitto sterile, dominato da ricorsi e recriminazioni, se nella CEI c’è qualcuno che possa “battere un colpo”, si faccia avanti e, anche con sobrietà e discrezione, fermi questo modo semplicistico (e perciò ingiusto) di stabilizzare una parte degli Idr, per dare voce a tutti coloro che sperano ancora che anche su questo tema la Chiesa italiana si avvii sulle tracce della via pastorale indicata da Papa Francesco: una via illuminata dai valori della giustizia sociale e di un’etica pubblica irreprensibile e priva di conflitti di interesse, dal rispetto di ogni complessità (il famoso «poliedro»!) anche attraverso un’audace creatività nel saperla gestire, dalla cura della sinodalità e dei rapporti intergenerazionali.

Se ciò non avverrà ora, con l’incipiente avvio del cammino sinodale della Chiesa italiana e di quella universale, quando potrà avvenire?

 

 

 

8 risposte a “Figli di un Dio (e di una Chiesa) minore?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Non entro nella materia “concorso” perché sono estranea , però come cittadina cattolica sono interessata a essere rappresentata da chi, Chiesa o istituzione quando si tratta di rivendicare un diritto o obiettare su quanto si stia legiferando e che dovrebbe poi essere oggetto di osservanza, Se. Cittadini sono uguali di fronte alla Legge, questa deve essere anche bene accetta da tutti, altrimenti il tanto citato “benecomune” rimane vuoto di contenuto. Ci sono partiti con il loro seguito di comunanza politica, ma anche moltissimi cittadini liberi co n altre idee , e, dunque, non hanno diritto questi di avere un proprio portavoce ? Non si comprende perciò quel politico, parlamentare, tutti questi si rivolgono quando interpellati , sempre parlano di “italiani”, intendersi tutti, quando invece sono solo coloro che condividono sostengono le loro idee. O tutti siamo presenti o non vedo dove è la democrazia.

  2. Lena Bano ha detto:

    ..S”arebbe stato preferibile che gli organi competenti della CEI si fossero assunti la responsabilità di esprimere il loro favore verso questa modalità di concorso, spiegandone i motivi e discutendo le eventuali correzioni fraterne….
    Scusate se esco dal seminato ma da tempo mi sorge spontanea una domanda:”Come mai gli insegnanti di qualunque disciplina devono fare la gavetta di una vita di precariato e concorsi, mentre l’ultima buona ragazzina viene dolcemente inserita dalla diocesi ad insegnare religione senza nessun concorso ? Ma il vero scandalo sono i professori universitari di teologia così come vengono scelti…allora scopri che il ragionire della dittarella si iscrive a teologia e poi entra nel circuito e diventa professore (con qualche pubblicazione scialba) e te lo ritrovi lì che gestisce corsi (con l’approvazione dei vari direttori). Anche all’università statale o pubblica funzione così!?Altro che concorsi !

  3. Davide Corallini ha detto:

    Grazie mille Sergio!! Oltre all’inquietudine per una modalità concorsuale penalizzante, c’è anche la tristezza di sentirsi abbandonati.

  4. Sergio Ventura ha detto:

    Grazie a tutti!

    Sull’’intesa:

    a) nel punto 2 si parla di «rispetto» della l.159/19 (art.1-bis) e, nel punto 5, si fissa la quota di riserva per gli Idr precari storici al 50% (quando secondo l’art.1-bis poteva essere più bassa). Ciò è un “di più” che comporta di fatto l’assenso della CEI ad una normativa che andava invece censurata;

    b) nel punto 7 si aggiungono (rispetto all’art.3, co.5 della l.186/03) le «indicazioni didattiche» dell’IRC, cercando – senza riuscirvi – di non contraddirsi con lo stesso art.3, co.5 (che escludeva la possibilità di verificare in sede di esame i contenuti disciplinari), probabilmente con il fine di garantire la presenza nelle commissioni d’esame dei soli Idr già di ruolo;

    c) nel punto 6 si afferma, in un modo e con intenti decisamente indecifrabili, che il bando di concorso determinerà articolazione, criteri e punteggi delle prove «tenendo presente che tutti i candidati sono già in possesso dell’idoneità diocesana».

  5. Giuseppe Rizzo ha detto:

    Descrizione chiara e precisa della nostra situazione. Sarà recepita dai destinatari?

  6. Michele Di Francesco ha detto:

    Tutto condivisibile: grazie!
    Si potrebbe chiarire meglio il passaggio sui vari punti dell’intesa?

  7. Filomena Abagnale ha detto:

    Ci hai rappresentato degnamente con questa tue parole.Grazie

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