Sentire tutta la pena del mondo

Questo è un tempo di dolore, di dubbio e di protesta, che mette in crisi il nostro essere uomini e la nostra fede. Diamo spazio alle domande più radicali, così da essere ancora pienamente uomini, anche di fronte a Dio.
1 Dicembre 2020

Attraversiamo un tempo di profonda sofferenza: mesi di pandemia, crisi economica e sociale, fatiche individuali, morte. È un tempo di dolore, che si è già trasformato in sfiducia, che si può trasformare in angoscia.

L’uomo occidentale, stordito nel suo consumismo diventato religione, con i suoi riti e i suoi giorni di festa, aveva ormai relegato la sofferenza, la malattia e la morte alla sfera individuale: ‘incidente di percorso’ nel fluire dei giorni, ‘inciampo’ che riguardava pochi singoli. E invece un virus ci ripresenta la pena del mondo, che non volevamo più vedere, che non volevamo più prendere in considerazione: proiettati verso un futuro apparentemente felice, spesso ignari delle vittime del ‘progresso’ perché lontane, indifferenti ai costi della marcia incessante, ci siamo scontrati con il limite della creazione, con il limite della vita umana. Non più però nella dimensione privata, bensì nella sua dimensione collettiva e cosmica.

E ora attraversiamo un tempo di dolore, tutti, sebbene a intensità diversa. Un dolore che è acuto, e a cui non eravamo pronti. Ma, dobbiamo riconoscerlo, al di là degli errori personali e collettivi, delle miopie e delle illusioni, chi è mai veramente pronto al dolore?

Questo è un tempo di sofferenza: uomini e donne facili prede della malattia, della disperazione, della povertà reale o paventata, della disoccupazione. Bambini, adulti, anziani: nuove solitudini e separazioni allontanano gli uni dagli altri.

E poi la morte, terribile perché solitaria, per un virus che toglie l’aria ai moribondi e toglie il fiato a chi non può accompagnare un volto caro verso la fine. Morti a migliaia, morti contagiose e imprevedibili, su uno sfondo di chiacchiere. Dovremo sentire tutto il peso di questo dolore, dovremo attraversare la pena del mondo. È questa la probabile vocazione del tempo che stiamo vivendo.

Possiamo stordirci e cercare vie di fuga irrazionali; possiamo gridare ai complotti, mercanteggiare la fede e trasformarla in superstizione, tentare di placare la punizione di un Dio vendicatore, interpretando la sua volontà sul mondo. Ma questi sono solo palliativi di consolazione, che forse generano qualche refrigerio, ma di fatto sono semplici fughe dalla realtà, e quindi dalla sofferenza. Modi di esorcizzare il dolore, renderlo circoscritto, tradurlo in categorie comprensibili, mentre esso rimane incomprensibile.

Invece dovremmo prendere sul serio questo tempo di oscurità e prendere sul serio la nostra fede, ossia prendere sul serio Dio, chiamarlo in causa: è fede matura prendere così sul serio Dio da farsi interrogare, scuotere e mettere in crisi… fino a interrogarlo, scuoterlo, metterlo in crisi? Fare ciò al punto da partorire la protesta e il dubbio: si può, si deve, poter protestare con Dio. Perché il dolore? Perché il male?

E dovremmo avere il coraggio di rifiutare risposte semplici, che spesso si ammantano di retorica. Dovremmo avere il coraggio di tacere, di abitare il silenzio. Sapere che in certe situazioni estreme non basta indicare la croce e affermare che il Cristo soffre con gli uomini: perché a volte il dolore è tale che simili affermazioni sanno solo di consolazioni effimere e non umane. Perché, di fronte a certi abissi del male e della storia, «mi sembra sempre come se volessimo soltanto timorosamente salvare un po’ di spazio per Dio […]. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile» (Dietrich Bonhoeffer).

Abbiamo ascoltato tante parole vuote: soluzioni a poco prezzo, a scapito dell’umano e di quello che vive. Ricordiamo Giobbe: solo il giusto sofferente e ribelle merita l’attenzione vera di Dio, non i portatori di facili e disumani ragionamenti. Perché possiamo anche credere per fede che il Cristo soffre con gli uomini, ma dobbiamo anche ammettere che spesso, nella pena, quella vicinanza di Cristo non la sentiamo, non la avvertiamo. E accade anche che non sentiamo la vicinanza degli altri uomini.

Lì sorge la domanda, e anche la rivolta, che si fa combattimento, come accade a Giacobbe con l’angelo, di notte. Possiamo lottare con Dio: a volte, è l’unica forma di fede, la più radicale, la più umana che rimane: «La fede in un Dio vivente ha la natura di un dialogo in cui c’è spazio anche per le grida di protesta» (Tomáš Halík).

Bisogna abitare il silenzio, abitare la domanda, vivere la lotta: prendere sul serio Dio, anche scuotendo alla base la nostra fede: se ci sei, dove sei? Se ci sei, cosa fai? È questa vera fede? Sì. Perché vuol dire scendere nella profondità del rapporto, patendo anche la delusione.

È l’esperienza dei Salmi, dove «la sofferenza si trasforma in domanda» (Papa Francesco). In questo tempo, le domande del Salmista affiorano in superficie: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? (Sal 13, 1-2).  Perché Dio spesso sembra tacere, sembra essere nascosto, sembra dimenticarsi dell’uomo: «A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio» (Sal 28, 1). Se crediamo in un Dio che è Padre, dobbiamo avere la libertà di domandare: dove ti sei nascosto? «Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?» (Sal 10, 1).

Dobbiamo avere la libertà e la forza di dire: così non resisto più, così non riesco ad andare avanti. Dobbiamo sapere che queste domande sono legittime e vere, e per questo sono da far salire alle labbra. Perché se per fede crediamo che il Cristo abbia patito anche l’angoscia e l’abbandono, e sappiamo che Dio vede i nostri drammi («Eppure tu vedi l’affanno e il dolore», Salmo 10, 25), tuttavia rimane il carico del dolore e del male, del singolo e dell’umanità. Sono lacerazioni che l’uomo vive da sempre: il mistero del male, il mistero del dolore innocente.

Ma questo non ci consola, perché vorremmo sapere, perché sempre vorremmo la vita e non la morte, non la sofferenza. Il mistero della penombra di Dio, che talvolta diventa ombra, ci lascia senza fiato, al di là della fatica della nostra libertà. Attraversiamo il silenzio, facciamo sgorgare la domanda e la protesta, chiamiamo in causa Dio. Non è arroganza, non è superbia: c’è un buio in cui solo la protesta è vera preghiera, perché significa rivolgersi a Qualcuno che non si capisce, Qualcuno di cui potremo anche purificare l’immagine, ma significa, in fondo, continuare comunque a rivolgersi a Qualcuno, anche quando non abbiamo più fiato.

In alcune stagioni della vita e della storia, si deve avere il coraggio della radicalità: chiederci cosa è dell’onnipotenza di Dio, cosa è di Dio: «Quale Dio ha permesso che ciò accadesse?» (Hans Jonas). E misurare l’ampiezza del silenzio, la profondità del mistero che lascia attoniti, storditi e senza alcun balbettio.

Possiamo chiamare in causa la responsabilità di Dio, e insieme chiamare in causa la nostra responsabilità: perché mentre interroghiamo l’Assoluto, schiacciati dal dubbio e dalla pena, abbiamo però il dovere umano di lenire, per quanto è possibile, il dolore degli altri: «La pienezza dell’amore per il prossimo è semplicemente la capacità di domandargli: qual è il tuo tormento?» (Simone Weil). Avere la forza di com-patire, di capire e avvertire che il mio dolore è simile a quello che schiaccia l’altro. Riconoscere nel viso dell’altro il mio viso e muovermi verso di lui, poiché «L’Altro uomo non mi è indifferente» (Emmanuel Lévinas). E se non abbiamo la forza di tendere la mano, di usare solidarietà, dobbiamo però sentire tutta la responsabilità di non gravare l’altro di altro male: «dico soltanto che sulla terra ci sono flagelli e vittime e che, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello» (Albert Camus).

Resistere, co-esistere in questo spazio e in questo tempo, cercare di non farsi travolgere, porre l’ostacolo della responsabilità, stringere una «social catena» (Leopardi) contro l’eruttare del male. E, ancora: interpellare Dio, con insistenza, con libertà, con umanità, con fatica.

Sono queste, realmente, umane posizioni dell’umano esistere di fronte al dolore. Altrimenti strapperemo anche i pochi brandelli superstiti di umanità e allora, davvero, non ci rimarrà che l’abisso.

A volte ci resta solo il silenzio della nostra fragilità: ma anche lì rimaniamo pienamente nella nostra condizione di uomini, poiché «Non si sfugge al dilemma dell’essere uomini» (Joseph Ratzinger).

10 risposte a “Sentire tutta la pena del mondo”

  1. Paola Meneghello ha detto:

    Pietro, condivido, ma ritengo che l’esperienza spirituale debba un po’ uscire dal concetto di peccato, colpa, perdono; se a un bambino si ripete che è cattivo e non vale niente, finisce che ci crede, e può succedere anche noi.
    Non credo all’uomo che conta solo sulla ragione, proprio perché non riconosce una dimensione immensamente più grande in sé e rimane al possibile e al necessario, senza spingersi oltre. .
    Dipendere da Dio vuol dire riconoscere in sé una parte più grande verso cui orientare la vita, e certo siamo piccoli, ma non inutili.
    Dio non impone la Sua Volontà, siamo noi che dobbiamo farla nostra, perché apparteniamo, anzi siamo quella Volontà.
    La mia idea di Dio e di umanità è quella del Sole e dei suoi raggi, Sole che non scalda ovunque senza di essi, ed essi da soli, senza il Sole e senza gli altri raggi, non vanno da nessuna parte..è questione di consapevolezza, è giunta l’ora di un nuovo Regno, quello di Dio in noi..

  2. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    @Paola.
    Servo
    Io mi devo sentire inserito in un progetto/senso/vita/luce che nasce e si alimenta in Lui.
    Non vi ho chiamati servi.. Per Lui non lo siamo.
    Dovremmo riuscire a distinguere sempre nella relazione quello che mi viene da Lui e la mia risposta.
    Ad es. spesso confondiamo il Suo amore con il ns.
    Visto con gli occhi di un padre date tale l’obiettivo deve essere che il figlio si renda capace di…
    indipendentemente da lui…
    Visto con gli occhi di un figlio veramente tale egli deve riconoscere che senza questo suo tale padre lui non avrebbe vita, conoscenza e luce i.e. quanto di se stesso dipenda da lui..
    Aggiungo che più GRANDE è il padre più dipendente io sono.. cosa che faceva dire a don Patrizio Rota S.
    ” talvolta avere genitori troppo bravi è una condanna!”
    Che sia absconditus x qs.??

  3. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Per non incorrere a fraintendimento . Mi riferisco a radicalita’ non però intesa come di .disprezzo verso altri, ma a quella evangelica, radicale perché scelta di via che più è sicura a risalire la china; giacche si può contare di ritrovarsi affiancati da un Uno, come è accaduto ai due di Emmaus, il quale si fa vicino, influisce sul nostro spirito depresso o scoraggiato proprio l magari, questo non lo sapremo mai, se le cose si dipanano verso il meglio, noi ringraziamo Dio. Personalmente ritengo Gesù Cristo uno che non ama le mezze misure, l’incertezza, il dubbio; quando dice lascia che i morti seppelliscano i loro morti” insegna di fare la scelta che è più importante, quella naturalmente che è Lui stesso, costa però accettando l’incognito del mistero che l’avvolge, fidando si rivela la strada unica giusta

  4. Paola Meneghello ha detto:

    Dio è Dio è l’uomo non è il Suo servo, ma un figlio che deve diventare adulto sull’esempio del Padre.
    I bambini sbagliano, cadono, e un padre serve per aiutarli a rialzare, ma non può evitare che cadano, né che vadano incontro alla vita.
    Crescerebbero smidollati senza responsabilità, dei perfetti incoscienti, non credo che Dio voglia questo da noi.
    E nemmeno suppliche in ginocchio in attesa di un degno e misericordioso accenno, forse vuole solo che ne ascoltiamo gli insegnamenti, e come chi sa amare non chiede nulla in cambio, anche perché chi ama comprende un po’ l’altro, e non vede più dove finisce uno o l’altro; si chiama relazione, non dominio.

  5. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Fragilità, sentirsi soli, liberta, radicalita, penombra di un Dio che sembra assente. E’ una situazione tragica, una libertà in cui dare senso al vuoto, ecco perché la persona, come un Giobbe, non ha che rivolgersi a ciò che è radicale, l’unica via a risalire, il Dio che sembra non presente. Solo Il credere nella Sua Parola e via aperta, diventa un Dio Madre che apre le braccia e offre ogni aiuto; vie inimmaginabili,sorprendenti, che portano a sprazzi di serenità e gioia. Sta scritto che è un Dio che vuol salvare tutti, con la vittima il peccatore; ma ha un costo una rinuncia che si credeva possibile, giusta, per questo il ricorso a radicalita quella dimostrata da Cristo, Che si è fatto carico di rinuncia, “non aveva dove posare il capo il figlio dell’uomo” tanto di male gli è stato inflitto, il disprezzo verso le sue idee, perfino disconosce za a tutto quanto di bene aveva fatto a tanti!, il nuovo concetto di libertà la Sua, che nasce da un amore altruistico,

  6. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Risposta seguito al CHE FARE?
    Rivalutare ACLI?
    RILANCIARE LA CONFESSIONE oops ma non come dichiarazione dei peccati e assoluzione ecc… Mai e poi mai..Neanche come “guida”
    Solo come incontro spirituale
    Solo come ascolto. A partire dal silenzio di cui Sergio e tanti parlano qui.

    • Paola Meneghello ha detto:

      Pietro, con sta storia dei mille caratteri, mi sono accorta di aver mandato un messaggio un po’ monco. Volevo dire che non condividevo ciò che lei aveva detto nel primo messaggio, che era la parola “servo”, che secondo me si presta a fraintendimenti..colpa/peccato/ sottomissione, e mai presa di coscienza, ma per il resto la pensavo come lei.
      Praticamente ho tagliato quello che serviva e ho lasciato il superfluo. È colpa mia che non ho il dono della sintesi. Scusi. Buona giornata!

  7. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Quindi se mi rivolgo a Dio…
    mi skontro con un muro, in cui inutilmente cerco varchi.
    Perché?
    Semplice! Perché Dio è DIO ed io sono semplice creatura. Servo. Sua scopa, mi diceva alla ‘effusione’. Credo che la soluzione stia tutta nella accettazione fi Dio. Nel riconoscerGli il suo posto/senso/stato..
    Ben diverso deve essere il ns atteggiamento vs il mondo.
    Vi passo una riflessione notturna, frutto di probls con la TARI.
    Col COVID è diventato difficile, se non impossibile, entrare in contatto con la P.A., con PERSONE. Siamo sempre più in mano a risponditori automatici, a telefoni cui nessuno risponde, a porte chiuse, a persone che evitano la ns vicinanza.
    Credetemi: qs situazione porta i più deboli vicino alla follia.
    Che fare?
    ( Segue in altro msg risposta)

  8. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Responsabilità, compatire, dovere umano di lenire…..eppure anche noi se capaci di mettere in pratica queste tre, può accadere che siamo artefici di “miracolo”di bene.Una giovane peruviana,badante di persona disabile, vien aiutata ad ottenere il permesso di soggiorno,si sente male e il medico cui è fatta visitare le diagnostica calcoli da operare in primavera.Succede a notte fonda telefona che si sente male, ambulanza,fortuna che viene indirizzata in ottimo ospedale, dagli esami e da operare in 24 ore. Non si può farle visita, ma telefona “mi hai salvato la vita” proprio in tempo. Oggi la operano, speriamo perché è madre di due bambine lasciate per trovare lavoro qui. Non resta che pregare Dio che tutto vada bene. Sono fatti che a leggerli e una cosa, ma viverli e altra e se qualcuno ha il cuore che muove e spinge a fare per il prossimo e da ringraziare Dio che ci rende capaci di tanto Con il suo aiuto.

  9. Paola Meneghello ha detto:

    Io per prima quando prego spesso invoco una grazia, è umano, ma è sbagliato. Perché Dio non può intervenire sul male del mondo, che è nostra responsabilità, essendo liberi. Ma Dio non lascia l’uomo solo, e come un padre tende la mano affinché si riesca ad accettare un dolore a tal punto da sentire venir meno la sofferenza, ed è questa la vera grazia.
    Io credo ai miracoli, ma, di nuovo, penso siano un varco nel cielo che noi stessi con la nostra fiducia sappiamo spezzare, e non una scelta a caso di Dio, che così sarebbe ingiusto, prima ancora che misericordioso.
    Sono parole, certo, e quando si è dentro al dolore è difficile non ribellarsi, siamo umani e fragili per questo, come dice l’articolo, ma Dio c’è, eccome se c’è, e sono proprio queste capacità di reazione che lo dicono, secondo me, e che ci differenziano da un robot senza emozioni.

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