Il perdono e la penitenza

Il perdono e la penitenza
22 Agosto 2018

Il perdono. Non tanto quello che un cristiano deve ai suoi fratelli, ma piuttosto quello che Dio ci offre, quando veniamo perdonati dai nostri peccati. E’ innegabile notare che la teologia tradizionale, soprattutto dopo il concilio di Trento, ha analizzato e individuato in modo preciso le condizioni umane necessarie e gli effetti spirituali del perdono di Dio. Su questo le vulgate delle teorie espiatoria e del riscatto, affermano che da parte del peccatore c’è un debito da pagare e un male da espiare. Ovvio quindi che questo debba prendere forma in una “disposizione” d’animo che mostri il desiderio di ricevere il perdono e, successivamente, in una “penitenza” che renda materiale il pagamento e l’espiazione. 

In realtà, la teologia classica ha individuato la disposizione d’animo nel pentimento, che si sostanzia nella cosiddetta “contrizione del cuore”. E’ parola strana e desueta questa, che sta ad indicare lo sbriciolamento del “cuore duro” del peccatore. Ma nelle due vulgate la contrizione diventa percezione del dolore per il male provocato, che si impossessa dell’anima del peccatore, muovendolo così a chiedere il perdono a Dio, che allora lo concede. Essere perdonato, secondo questa logica è solamente essere ripristinato nella relazione con Dio, riottenere un canale di accesso al suo amore. Ma il male commesso resta, non si può annullare e perciò, per riequilibrare il senso della giustizia calpestata, dopo aver ricevuto il perdono di Dio, la persona sarà chiamata ad una penitenza che sia, in qualche modo, adeguata al male commesso. 

In questa logica, il pentimento sarebbe precedente all’incontro rinnovato tra la persona e Dio. Anzi, solo dopo questo rivolgimento dell’anima, prodotta dalla percezione del male commesso, la relazione d’amore col Signore si potrebbe ripristinare. Ma visto così il pentimento è frutto di un lavoro interiore che si svolge solo tra l’uomo, il suo peccato e il male prodotto. Inoltre, se dopo il perdono resta necessaria la penitenza per restaurare la giustizia, significa che il perdono di Dio, in sé non basta a ricucire la ferita dell’amore provocata dal peccato, non agisce con potere sufficiente. 

Nella bibbia il pentimento, invece, è sempre frutto dell’opera di Dio nella persona, dell’incontro con Cristo, che anticipa e rende possibile, poi, il rivolgimento interiore di riapertura del peccatore, non lo segue. (cfr. At 9,3-5) E la penitenza non ha lo scopo di “pagare” un debito, ma quello di crescere nell’amore: “Va, e non peccare più”. (Gv 7,11). E il magistero: “La giustificazione fa seguito all’iniziativa della misericordia di Dio che offre il perdono. (…) Sotto la mozione della grazia, l’uomo si volge verso Dio e si allontana dal peccato, accogliendo così il perdono e la giustizia dall’alto” (CCC 1989-1990) (Vedi anche 1432). E la penitenza serve a camminare verso “l’uomo nuovo”, cioè a crescere spiritualmente, non a espiare una pena. (vedi CCC 1473)

Forse, allora, dobbiamo provare a descrivere meglio quale sia la dinamica che presiede al perdono. Questo verbo significa, in radice, donare di più, amare di più, maggiorare l’impulso di amore verso la persona che si perdona. Esiste perciò un atto di Dio, assoluto e gratuito, che precede qualsiasi nostra disposizione interiore, col quale Dio continua a guardarci con amore anche nel mezzo del nostro peccato. E proprio per il nostro peccato, Lui ci viene a cercare, azzera lui la distanza che noi abbiamo messo, perché sa che da soli saremmo persi. 

Ciò che, allora, smuove il peccatore dalla sua durezza e rende possibile il pentimento, non è tanto la percezione del male operato, ma, molto di più, è sentire che Dio continua ad amarlo. Non è l’angoscia dell’essere colpevoli, ma la bellezza di poter essere ancora amati, e perciò capaci di amore, nonostante il peccato. Non siamo totalmente perduti, perché Dio è ancora lì, che non vede l’ora di poterci riabbracciare. Non è l’uomo a tornare a girarsi, di suo, verso Dio, ma è Dio che continua a ripresentarsi davanti allo sguardo dell’uomo anche quando l’uomo non lo vorrebbe vedere. E in questo sguardo di amore, che Dio ci mostra, noi possiamo lasciarci guardare e ritrovare la pace del cuore. Il perdono in questo senso non è solo la riapertura di una relazione, ma è anche l’essere risanati nell’anima, liberati dalla tremenda sensazione di essere colpevoli e di non poter farci più nulla. E’ tornare a sentire che possiamo amare di nuovo, proprio perché siamo stati amati gratuitamente nel peccato. 

La condizione umana prima che rende possibile mettere in moto il processo di perdono è solo la nostra fede che il suo amore resti sempre possibile per noi, nulla di più e nulla di meno. Semmai l’effetto di sentirci ancora amati, nonostante tutto, ci spinge a darci conto del bene infranto col peccato e ci sprona a cercare di amare più di quanto fin’ora abbiamo fatto. 

La chiesa ha individuato, in termini aristotelici, la “materia” del sacramento del perdono nella contrizione, accusa dei peccati e soddisfazione della penitenza. Ma se questo è letto in chiave “retributiva”, attraverso le vulgate espiatoria e del riscatto, rischia di creare un corto circuito nella dinamica del perdono. Questi atti del penitente, infatti, il CCC stesso li definisce opera della grazia di Dio (Cfr. 1452-53). In chiave retributiva invece, la grazia di Dio arriverebbe dopo che la contrizione del cuore ha compiuto il suo percorso. 

Se vogliamo mantenere il valore della confessione come atto sacramentale, dobbiamo pensare che l’unica condizione possibile per ricevere il perdono è che noi, a quel perdono ci crediamo, lo crediamo possibile. Allora Dio può toccarci il cuore e tutto il processo che va dal pentimento, all’accusa dei peccati, alla penitenza è possibile perché sotto l’azione della grazia. Così il perdono arriva a compimento quando il peccatore collabora con essa, dando il suo assenso e agendo concretamente quell’amore. Dio, cioè, si muove a perdonarci ben prima del nostro pentimento, per la nostra fede. Cioè gratuitamente. In questa logica la penitenza è un modo per crescere nell’amore, operando effettivamente la misericordia, dopo aver visto che non lo abbiamo fatto, ma convinti che Dio ci rende ancora possibile farlo.

Ecco perché Dio non può perdonare la bestemmia contro lo Spirito Santo, non perché “sua sponte” Lui abbia deciso di non perdonare qualcuno o qualcosa. Questo non avviene mai. Ma perché bestemmiare lo Spirito significa credere che l’amore di Dio (lo Spirito appunto!) per me non è amore, non può esistere per me. E siccome il sacramento non è magia, ma funziona solo se io ci credo, cioè non pongo ostacoli all’azione del suo amore, se non ci credo, non può avere effetto per me. 

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