Il celibato necessario ? (2)

Il celibato necessario 2
26 Novembre 2019

La ricostruzione storica fatta nel post precedente è di fatto accennata già da Paolo VI, nel 1967: “L’intimo rapporto (…) tra la vocazione al sacerdozio ministeriale e la sacra verginità trova la sua origine in mentalità e situazioni storiche diverse dalle nostre. Spesso nei testi patristici si raccomanda al clero, più che il celibato, l’astinenza dall’uso del matrimonio, e le ragioni addotte per la castità perfetta dei sacri ministri sembrano talvolta ispirate a eccessivo pessimismo per la condizione umana nella carne, o a una particolare concezione della purezza necessaria per il contatto con le cose sacre” (Sacerdotalis Coelibatus, 6). Motivazioni perciò del tutto estrinseche al ruolo sacerdotale.

La normativa di Trento, che da di fatto inizio all’impossibilità del matrimonio per sacerdoti e vescovi, ha perciò bisogno di una sua “fondazione” teologica, per poter essere riconosciuta nella sua forza ecclesiale e giuridica. Su questo piano la necessità del “celibato” viene appoggiata sull’idea del ministro come “sposo della Chiesa”, perciò celibe, perché ri-presenta effettivamente la persona di Cristo (essere in “persona Christi”) in quella comunità. Il sacerdote perciò sarebbe Cristo che ama e sposa la sua Chiesa, realizzando ciò che dice Ef 5,22-32. Questa teologia era già presente a partire almeno da Agostino, ma fino al concilio di Trento non aveva mai prodotto conseguenze giuridico canoniche. Quando ciò avviene, essa mostra, però, due lati molto deboli.

Il primo è che bisogna forzare i testi biblici connessi all’idea di Cristo sposo, per ottenere la necessità del celibato. A partire proprio da Ef 5, che non parla mai né esplicitamente, né implicitamente, del ministro ordinato, ma solo del rapporto doppio Cristo – Chiesa e marito – moglie. Di per sé i testi biblici, non sostengono l’obbligo teologico del celibato, ma, in una lettura simbolica e spirituale del ruolo del ministro, lo spingono a vivere in uno spirito non “funzionalista”, ma con un “amore” pastorale verso la propria comunità.

Indubbiamente il nuovo testamento permette di affermare con certezza che il ministro ordinato ri-presenta Cristo, in alcuni caratteri specifici del ministro: il capo-pastore-servo (ad es. At 20,28), che rende presente il governo amorevole di Cristo, perciò guarda la comunità a partire da Cristo, ma non si pensa mai “separato” da essa, essendo anche lui, come capo, un membro del medesimo corpo mistico; il profeta-maestro (ad. Es At 6,1-4), che continua ad indicare la Parola di Dio a sé e ai fratelli, perciò guarda a Cristo partendo dalla comunità, ma che, per fare ciò, deve vivere come parte del popolo, sul modello dei profeti dell’A.T. e di Cristo stesso; il sacerdote sacrificio (ad es. Rm, 15.16): nell’offerta che Cristo fa di sé al Padre e del proprio corpo alla Chiesa, il ministro offre sé stesso a Cristo a nome della Chiesa, e con ciò offre la Chiesa stessa a Cristo, ma, al contempo, offre anche il corpo di Cristo alla Chiesa. In ciò il sacerdote guarda la comunità a partire da Cristo e, viceversa, guarda Cristo a partire dalla comunità.

In queste tre prospettive il ministro è sempre contemporaneamente persona Christi, cioè dalla parte di Cristo verso la Chiesa e persona Ecclesiae, cioè dalla parte della Chiesa verso Cristo. E ciò è essenziale per mantenere una teologia compiuta del ministero sacerdotale (Vedi CCC 1548-1553). Quando invece usiamo il concetto di Cristo sposo applicato al sacerdozio, perdiamo di vista totalmente l’essere dalla parte della Chiesa e resta solo l’essere dalla parte di Cristo. Perché, sul modello di Adamo ed Eva, il nuovo Adamo e la nuova Eva sono di “fronte e verso” l’uno all’altro (“kenegdò” di Gen 2,18), ma sempre diversi l’uno dall’altro. Perciò il ministro vive di fronte alla comunità, come altro da essa, e non dentro di essa.

Se dovessimo essere precisi, invece, dovremmo prendere l’unico passo biblico in cui Cristo sposo si relaziona con la Chiesa sposa e in cui compare anche il ministro, che è 2 Cor 11,2. Qui, però, la posizione del ministro non è dalla parte di Cristo, bensì dalla parte della Chiesa, perché è il ministro stesso a presentare la Chiesa, come una vergine, a Cristo. Il ministro non sarebbe, quindi, il Cristo-sposo, ma l’amico della sposa che la presenta allo sposo. Quindi dalla parte della comunità verso Cristo.

Il secondo lato debole è che se sacerdoti e vescovi necessitano di essere celibi, come dato strutturale del loro ruolo, perché incarnano Cristo sposo, dovremmo allora, a rigor di logica, affermare che per più di 1500 anni la prassi della Chiesa è stata scorretta e che l’ordinazione, fino a tale epoca, dei ministri sposati mancava di un requisito indispensabile per essere ritenuta valida. Per i primi 300 anni, poi, non solo la prassi, ma anche la teoria della Chiesa sarebbe stata scorretta. Il ché sarebbe folle. Inoltre, anche i sacerdoti sposati provenienti da altre confessioni cristiane, convertiti al cattolicesimo, non potrebbero essere riconosciuti validamente come sacerdoti. Cosa che invece accade.

La condizione attuale, perciò, in cui la Chiesa cattolica afferma che il celibato sacerdotale è una possibilità e non una necessita del ministero, è l’unica possibile fedele ai dati biblici, storici e teologici. “La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli (…) non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva”, ma “ha per molte ragioni un rapporto di convenienza con il sacerdozio” (Presbiterorum Ordinis, 16).

E’ evidente, quindi, che la discussione può vertere solo sulla opportunità o meno di mantenere il celibato sacerdotale, non sulla sua necessità. Ma qui, allora bisognerebbe anche chiedersi: se il celibato non appartiene strutturalmente al sacerdozio, è possibile che Dio chiami persone a questo ministero senza contemporaneamente chiamarli anche al celibato?

Almeno come provocazione dovremmo provare a rispondere.

 

 

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