Scegliere di restare uomini: può succedere ancora

Con Mario Rigoni Stern il racconto di un'epifania di pace nel mezzo di una guerra. Protagonisti alcuni uomini dell'Oriente con una stella sul cappello anziché in cielo
6 Gennaio 2016

Nel Vangelo dell’Epifania i protagonisti sono degli uomini «giunti da oriente». (È un versetto che potrebbe essere usato come didascalia dei nostri giorni: uomini che giungono da oriente e bussano alle nostre città).
L’Epifania è la festa delle genti, in cui il Bambino si rivela non solo al popolo di Israele, ma ad ogni popolo: il Salvatore non è mio, non è tuo, ma è di tutti… o meglio: tutti sono suoi.
Ma a questa festa non manca l’onda del male, che lambisce anche la casa di Betlemme: un re, Erode, trama nell’ombra per soffocare la luce…eppure quel male non entra nella casa dove i Magi trovano il «Re dei Giudei». Rimane fuori. Lì vige una “tregua”.

È un episodio che mi fa tornare alla mente un brano di un libro che dovrebbe essere letto e riletto, soprattutto ai giorni nostri: Il sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern, un mirabile racconto della terribile Ritirata di Russia affrontata dalla truppe italiane nel gennaio 1943, un inno forte e coinvolgente alla pace, alla fratellanza, alla solidarietà.
Anche in questo caso siamo in oriente (europeo). Durante un momento di pausa della battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio il protagonista, sergente alpino, cerca rifugio in un’isba. Qui, una volta entrato, trova a sorpresa di fronte a sè il nemico: alcuni soldati russi, in un momento di sosta dai combattimenti, mangiano dentro la capanna:

«Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria.»

È il momento decisivo di una vita: un soldato armato di fronte al nemico armato. L’epilogo potrebbe essere scontato: sopravvive chi spara per primo. Invece non parte alcun colpo: c’è un istante di stupore, a cui segue non la morte, ma la condivisione del pasto:

«- Mnié khocetsia iestj [vorrei mangiare, ndr] – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio».

È uno dei riti più antichi della civiltà: il pasto come l’interruzione delle ostilità. Gli uomini uniti da un bisogno, per un momento, non si fanno più guerra, aiutati da una donna nel costruire un tenue legame di pace.

Nell’intimità della casa, come a Betlemme (che non a caso significa “casa del pane”), genti diverse, perfino nemiche, condividono la tavola.

«Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba [grazie, ndr], – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta [prego, ndr], – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi.»

Non ci sono molte parole, se non quelle dell’umanità, e gesti, vecchi come il mondo. Qualcuno ha qualcosa e lo condivide con chi è nella mancanza. C’è un dono che viene offerto: non oro, incenso e mirra, ma latte e miglio.

Scrive a conclusione dell’episodio Rigoni Stern:

«Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano con me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.»

È successo una volta, potrà succedere ancora. È sempre possibile scegliere di aprire invece che chiudere; è sempre possibile scegliere di «restare uomini».

Ieri, come oggi; in guerra o in pace (o in una guerra che si combatte vicino a casa ma che ci sembra lontana).

 

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