Perfect Days: dei giorni “compiuti”, o l’Altro-da-Sisifo / 2

Nel film "Perfect days" di Wim Wnders vi sono tracce non solo di spiritualità - in primis quella del buddismo zen, ma anche di un "segreto" evangelico tutto da decifrare...
23 Agosto 2024

Molti articoli sono stati scritti sul film Perfect days, precisamente a partire dagli insights proposti dal regista Wim Wnders, per evidenziare l’intimo legame tra il vissuto interiore di Hirayama e la dottrina zen (già esplicitato qui, nella prima parte dell’articolo): l’essenzialità, la consapevolezza, la profonda concentrazione sull’azione – nobile o solo apparentemente insignificante – dell’attimo presente, il distacco dal sé, l’unione compassionevole con tutta la realtà naturale (“Quell’albero là… è vero che è tuo amico?” -domanda al protagonista la nipote Niko – “…Già… Hai ragione… Quell’albero è mio amico!”).

C’è tuttavia anche un segreto “evangelico” al cuore del “mistero” (G.Marcel) di Hirayama, che può essere ulteriormente approfondito. Questo “cercatore di luce” (zen è il termine giapponese che rimanda al sanscrito dhyana, meditazione – stessa radice di bodhi, illuminazione, e di buddha, illuminato-risvegliato – che etimologicamente ha a che vedere col cogliere la luce interiore nel suo passaggio: luce celestiale e luce “divina”, da cui deiva) – Hirayama è uomo pio anche nella simbolica: non manca mai di inchinarsi passando sotto un torii, pure nel mezzo del frenetico lavoro quotidiano, e di recarsi a pregare e offrire al tempio nel giorno festivo – questo “bel vecchio” (Καλόγερος nella tradizione cristiana orientale), vive tutta la propria esistenza e il proprio lavoro non come solipsistica ricerca di un perfezionamento individuale, ma nel gratuito e disinteressato “fare agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi” (Mt 7,12).

Nulla in lui, neanche l’essenzialità e la sobrietà, sa di egoico o auto-interessato: è dimentico di sé sino a lasciare a Takashi tutto ciò che ha in tasca perché questi possa trascorrere una serata insieme ad Aya, rimettendoci cena e chilometri a piedi per il serbatoio svuotato. La cura attenta e sobria di sé, dalla pulizia nei bagni pubblici alla semplice rasatura e spuntatura dei baffi mattutina, non ha nulla di egocentrato: Hirayama desidera essere presenza discreta e dignitosa, non sgradevole, per tutti coloro che incontra nella sua giornata.

Non perde occasione per donare un favore, specie se non visto, a ogni persona che trova sulla propria strada, compresi i suoi quotidiani compagni di sentō. Per recarsi sui luoghi dei Toilet municipali usa un furgoncino carico di attrezzi di pulizia da lui stesso costruiti, compreso un ingegnoso sistema di specchietti retrovisori che gli permette di detergere anche lo sporco più nascosto, affinché chiunque entri e usi i bagni possa trovare i servizi come avrebbe desiderato, pronti all’uso nei minimi dettagli, “come a casa propria”.

Tra i numerosi richiami intertestuali cui la pellicola rimanda, c’è il romanzo di William Faulkner The Wild Palms (If I forget thee Jerusalem il titolo originale, dal forte sapore biblico, dell’autore americano), costruito sull’intreccio di due racconti aventi come perno la gravidanza di due madri: la prima interrotta violentemente da un uomo contro la volontà della donna; la seconda – il racconto Old Man – salvata da un galeotto che rischia la propria vita a bordo di una piccola scialuppa per obbedire all’ordine ricevuto di soccorrere le vittime di un’alluvione: alla fine l’eroismo dell’anziano prigioniero non viene riconosciuto e premiato, anzi la sua pena è addirittura allungata di 10 anni per “evasione”.

Non è difficile scorgere in controluce qualcosa della vita di Hirayama, “uomo-per-gli-altri” e del nascondimento, della gratuità, del dono di sé libero dall’attesa di riconoscimenti: dell’ἀγάπη, assaporata e gustata in ogni sua forma e da chiunque provenga. È felice nel coglierne un bagliore persino in Takashi: specie nell’empatia che questi ha saputo creare con Dera-chan, un giovanissimo ragazzo con disabilità, “amico delle sue orecchie”.

Ma Hirayama è anche uomo della misericordia e del perdono. Solo inoltrandosi nella conoscenza della sua storia personale divengono più chiari alcuni aspetti del passato del protagonista: figlio di una facoltosissima famiglia dell’alta borghesia della capitale, nella memoria affettiva profonda di Hirayama è ancora vivissima la ferita aperta dall’incomprensione e dal radicale rifiuto da parte dei propri legami primari, specialmente dell’autoritaria figura paterna. Un rimando inconscio a questa sofferenza profonda, eco delle strategie narrative di James Joyce, Marcel Proust, Virginia Woolf e dello stesso Faulkner, ci è parzialmente svelato in uno dei primi sogni di Hirayama – dal sottotitolo “ombra” – cui il regista ci consente di avere accesso, grazie ai meravigliosi disegni in dissolvenze di scala di grigi di Donata Wenders.

Escluso ancora oggi da ogni contatto con la sorella Keiko – la quale giudica incomprensibili e privi di dignità sociale il lavoro e lo stile di vita scelti dal fratello – Hirayama non ha più potuto incontrare nemmeno l’amata nipote Niko, sin dagli anni dell’infanzia di quest’ultima.

Quando Niko, ormai adolescente, fugge di casa in seguito a un litigio con la madre, si “rifugia” nella modesta dimora dello zio, come da sempre aveva progettato di fare in una simile circostanza. Giunta la sera in cui Keiko, scortata dal suo autista, si reca a casa di Hirayama per riprendere con sé la figlia, comunica al fratello lo stato avanzato della malattia neurodegenerativa del padre, ormai non più lucido. Troppo dolorosa è la ferita ancora aperta in Hirayama perché possa riuscire a visitare il padre in clinica, ma nell’abbraccio commosso e compassionevole alla sorella comunica tutto il suo desiderio di comunione, di perdono donato e atteso. È un gesto che la sorella non riesce a ricambiare, lasciando Hirayama in un pianto solitario e sconsolato.

Uomo celibe e privo di figli (“Hirayama, senti, tu non sei sposato, vero?… Certo che essere soli alla tua età… non ti senti triste?”, gli domanda Takashi con poca delicatezza), è tuttavia capace di autentica e delicata paternità nei confronti delle persone che, per sensibilità e affinità, scelgono di riceverne ispirazione: tra queste la stessa Aya, la ragazza – solo apparentemente superficiale – con la quale Takashi aveva cercato un po’ maldestramente di instaurare un legame.

“Il mondo in realtà, è fatto da tantissimi mondi. Alcuni di loro sono collegati, mentre altri invece non lo sono…” svela Hirayama a Niko, meravigliata di trovarsi più in consonanza con lo zio che con la madre. Hirayama e Niko sono due mondi collegati (non importa se uno viaggia in analogico, l’altra in digitale), due “cercatori di luce”, due ascoltatori della natura e dell’interiorità propria e altrui. Due lettori appassionati, specie quando si trovano distesi ognuno sul proprio tatami. Niko prende a prestito dallo zio la raccolta Eleven Short Stories di Patricia Highsmith, immedesimandosi specialmente in Victor, il giovanissimo protagonista del paradossale racconto The terrapin (“La tartarughina”): dominato da una madre egocentrica e spiritualmente sorda, che vorrebbe plasmarlo a propria immagine, Victor dapprima subisce, poi uccide la madre per scappare dalla “prigione” della sua tirannia.

La paternità che Hirayama esercita verso la nipote è invece autentica e vera perché liberante, libera dall’intenzione di legare l’altra persona a sé o al proprio stile di vita:
“Il mondo in cui vivo io, è molto diverso da quello in cui vive tua madre…”
“E il mio mondo?… Io in quale di questi mondi vivo?”

Si fermano, scendono dalle bici per osservare il fiume. Solo la libertà della ragazza un giorno potrà rispondere a questa domanda, nella fedeltà alla verità di sé.

“Da qui… si arriva al mare?”
“Sì, al mare”
“Ci andiamo?”
“…Un’altra volta”
“Un’altra volta quando?”
“Un’altra volta è un’altra volta…”
“Quand’è un’altra volta?”
“Un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso!”.

I due riprendono la pista ciclabile lungo-fiume, ritmando la frase come in un melodioso rap.

Un altro legame d’essere significativo che Hirayama sperimenta è quello con Mama, la ristoratrice del locale dove Hirayama si reca da sei anni nei giorni festivi. Poco meno che coetanea di Hirayama, è donna ancora bella, molto amorevole e cordiale con il protagonista: di lui riconosce la profonda sensibilità e lo spirito poetico. La donna condivide con Hirayama il dolore profondo di un abbandono subito: la sua storia traspare per citazione implicita anche dal testo di una canzone giapponese, che ella spesso canta dolcemente per gli ospiti del suo locale. Tuttavia Hirayama – come sempre silenzioso e discreto – scopre solo dopo anni il segreto del passato di Mama. Entrando un giorno nel locale di lei, la vede tra le braccia di un uomo, all’incirca suo coetaneo: rispettosamente esce dal locale, si reca in bici al fiume dove “prova” a fumare una sigaretta e a bere una lattina di birra.

L’uomo lo raggiunge: ex-marito di Mama, si è separato da lei dieci anni prima per sposare un’altra donna. Malato gravemente, ha desiderato rivedere l’ex-moglie un’ultima volta. Avendo colto il profondo legame esistente tra Mama e Hirayama, gli esprime il desiderio che egli possa avere cura di lei. Hirayama, troppo timido e rispettoso per esprimere il suo sentimento di amore per Mama, improvvisa con lui un “gioco” simbolico di luci e ombre (un komorebi!) per manifestargli l’unità con la sua sofferenza e l’accoglimento della responsabilità nei confronti di Mama.

Nella scena finale contempliamo Hirayama iniziare una nuova giornata guidando il suo furgoncino verso il sole che sorge (simbolo del Giappone): è un saggio di recitazione espressiva da parte di Koji Yakusho. Qualche critico ha paragonato il suo volto alla tavolozza di un pittore, sulla quale l’attore riesce a dipingere ogni emozione e sentimento che scaturiscono nell’animo del personaggio. Hirayama è uomo capace di dolore, di compassione, di commozione, di amore, e – per tutti questi motivi intimamente e indissolubilmente legati – di gioia, di vera e autentica gioia. Altrimenti inaccessibile a chi si limiti a coltivare una mera impassibilità.

Sullo sfondo la bellissima Feeling good di Anthony Newley e Leslie Bricusse, interpretata da Nina Simone: intertesto che fa sintesi di tutti gli altri, esprimendo la gioia semplice e profonda della comunione e unità con la natura tutta (anche con ogni blossom on a tree…) e con ogni vivente. Anche da questo testo comprendiamo che Hirayama non è semplicemente il camusiano Sisyphe heureux, che assume con compostezza classica e animo quasi-nietzschano il limite, la finitezza e l’assurdità dell’esistenza – almeno nella versione inizialmente più “solipsistica” della ‘rivolta’, rispetto all’orizzonte più “sociale” del Camus de La peste – ma l’essere umano che ha saputo aprirsi a tale trasparenza da penetrare e “trasfigurare”, almeno in alcuni raggi di luce ricevuti e accolti, la “densa” coltre della realtà “inumana” e “irriducibile”: non senza averla pienamente e a caro prezzo assunta e attraversata, accettandone la crocifiggente “ostilità”, sino all’ultima lacrima versata.

Ecco, dunque, un altro essere umano conformatosi – consapevolmente o meno – alle sembianze del Figlio dell’uomo, che ha saputo “compiere” i suoi giorni, portandoli al proprio “fine”: rendendoli “perfetti” – cf. τέλειοι, Mt 5,48 – dandosi totalmente in cibo per gli altri (Τετέλεσται, “È compiuto”: Gv 19,30), a iniziare dai propri carnefici. L’Hirayama di Wenders ha saputo incarnare e inculturare ecumenicamente nel Paese del Sol Levante le otto beatitudini (Mt 5,1-12: ognuna di esse traspare nella sua esistenza e nei rapporti che egli intesse) e il discorso della montagna: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5,44-45).

[2^ parte – 1^ parte]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)