Uno dei passi più densi e significativi dello scavo camusiano nel “Mito di Sisifo” così ci introduce nel risveglio radicale alla coscienza dell’assurdo nell’animo umano, e nell’ancor più radicale riflessione sul suicidio: «Tutte le grandi azioni e tutti i grandi pensieri hanno un inizio di poco peso. Le grandi opere nascono spesso alla svolta di una strada e alla bussola di una trattoria. In alcune situazioni, il rispondere: “niente” a una domanda circa la natura dei propri pensieri, può essere, nell’uomo, una finta. Ma se questa risposta è sincera, se rappresenta quel particolare stato d’animo in cui il vuoto diviene eloquente, in cui la catena dei gesti quotidiani viene interrotta e il cuore cerca invano l’anello che la ricongiunga, è allora come il primo segno dell’assurdo. E avviene così che la scena si sfasci. La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì e sabato sullo stesso ritmo… questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto, un giorno, sorge il “perché” e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore. La stanchezza sta al termine degli atti di una vita automatica, ma inaugura al tempo stesso il movimento della coscienza, lo desta e provoca il seguito, che consiste nel ritorno incosciente alla catena o nel risveglio definitivo. Dopo il risveglio viene, col tempo, la conseguenza: suicidio o ristabilimento».
Il film Perfect days (nomination miglior film internazionale Academy Awards 2024), uscito nelle sale italiane nei primi giorni del 2024 e attualmente disponibile in diverse piattaforme, segna il ritorno del maestro Wim Wenders alla regia pulita e impegnata di un’opera capace di penetrare a fondo l’animo umano e accompagnare lo sguardo della coscienza dello spettatore in una ricerca non meno seria e complessa di quella del pensatore francese. La sontuosa interpretazione di Koji Yakusho (premiato migliore attore protagonista dalla giuria del Festival di Cannes) ci guida nel seguire i gesti e dettagli quotidiani – apparentemente ripetitivi e insignificanti – di un uomo di mezza età avanzata (Hirayama), che da una borgata periferica di Tokyo muove ogni mattina con il suo chilometrato furgoncino verso il centro città, ove svolge con sorprendente dedizione e meticolosità il lavoro di addetto alle pulizie dei “Tokyo Toilet”, gli architettonicamente rinnovati servizi pubblici di quartiere della capitale giapponese.
In effetti la visione di “Perfect days” ha l’ambizione di accompagnare lo spettatore in qualcosa di diverso da una semplice trama, storica o di invenzione: l’intenzione è quella di immergere in un’esperienza meditativa, definibile senz’altro “spirituale” (lo stesso Wenders, intervistato, annoda il racconto delle giornate di Hirayama all’esperienza zen, e la figura del protagonista al vissuto monastico: inteso nel più ecumenico degli orizzonti), richiamando alla memoria in tal senso opere come Il grande silenzio di Philip Gröning, Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois, The Tree of Life e Hidden Life di Terrence Malick (solo per citare alcune tra le più recenti). Insomma, “prendere o lasciare”: è la scelta che regista e protagonista lasciano allo spettatore. Una scelta autenticamente “spirituale”, che in quanto tale richiede un costo: fiducia (o fenomenologica ἐποχή), e ingresso nel silenzio – almeno per le due ore di ascolto e visione.
La narrazione fa costante e sapiente uso dell’intertesto, onirico, letterario e musicale, come testimonia il titolo stesso: citazione del Perfect Day di Lou Reed, uno dei brani che volentieri Hirayama ascolta dal mangianastri del suo vecchio autoradio, che a propria volta rimanda a un “tu” che aiuta a portarne il peso: I’m glad I spend it with you… you just keep me hangin on.
Uno dei saggi che Hirayama legge, solitamente nei minuti che precedono il sonno, è “Gli alberi” della scrittrice giapponese Aya Koda. “…Dovrebbe essere più riconosciuta. Usa le parole che usiamo noi, con un effetto diverso. Ha qualcosa di speciale!”: commenta sorridendo la libraia del negozio di seconda-mano dove il protagonista si rifornisce nel fine settimana, quando si avvede che la scelta di Hirayama è caduta proprio su questo saggio.
Anche qui un doppio rimando: al profondo legame con gli alberi e la natura che caratterizza Hirayama (la pellicola si apre e chiude con l’immagine – ricorrente nel film – delle alte fronde d’acero mosse dal vento nel cielo, velando e svelando la luce) e alla vita stessa del protagonista. La “straordinarietà” non risiede nel contenuto dei suoi gesti e azioni, ma in qualcosa di speciale, “compassionevole” e “luminoso” – parole care anche al buddismo zen – che egli ha nel compierle.
Il moderno Sisyphe di Albert Camus, nell’atto del risveglio alla coscienza dell’essere umano che si pone in rapporto con il tempo, rimane afferrato dall’“orrore” di “riconoscerlo come il suo peggior nemico”. Camus scava fenomenologicamente in modo al medesimo tempo preciso e impietoso nell’apercevoir che le monde – la realtà – è “estranea”, “densa”, a noi “irriducibile”; nell’atto di accorgersi che persino nel fondo di ogni bellezza della natura vi è qualcosa di “inumano” e “ostile”, da sempre: «ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo». Lo stesso “aspetto meccanico dei gesti umani”, la “pantomima priva di senso” degli uomini, la loro “mimica senza senso” rendent stupide tout ce qui les entoure: al punto che “ci si chiede perché egli (l’uomo) viva”.
L’itinerario interiore di Hirayama verso la consapevolezza non è affatto più a buon mercato di quello camusiano: seguendo il racconto, lo spettatore coglie sempre più a fondo quanto la vita non abbia mai fatto sconti al protagonista e – lo si comprende sin dalle prime scene che ne descrivono senza filtri la quotidiana routine lavorativa – meno ancora gliene stia facendo nel qui e ora del tempo della narrazione.
L’“estraneità” e la “densità” dell’esistenza stanno per lui nella povera abitazione e negli esigui mezzi personali, nell’anonimo traffico dell’immensa metropoli, nella faticosa durezza del lavoro di pulizia delle latrine pubbliche, nell’umiliazione di dovere ricominciare la pulizia ogni volta daccapo quando qualche frettoloso fruitore entra nel bel mezzo del lavoro – “Hirayama, che ti danni a fare? Tanto poi lo risporcano…”, commenta il suo svogliato giovane collega Takashi – senza degnarlo di uno sguardo, di un saluto, di un “grazie”.
La sua tuta di pulitore di servizi igienici lo rende un “invisibile”, un intoccabile, uno “scarto”: anche quando discretamente e rispettosamente riconduce alla madre un bambino che si era perduto chiudendosi in un w.c. pubblico. Solo occhi altrettanto sensibili dei suoi riescono a notarlo e riconoscerlo: ad esempio quelli di qualche bambino (uno di questi gli lascia in un toilet, come message in a bottle, un foglio ripiegato che lo invita a una partita di tris a distanza), di alcuni dei negozianti e ristoratori dove quotidianamente o settimanalmente egli si serve. Alcuni di essi, come il commesso del fast-food della stazione sotterranea dove Hirayama si reca ogni sera in bici per la cena, ne intuisce il mistero dall’aspetto dignitoso e benevolo, dal suo sguardo sereno, attento e non giudicante verso tutti i clienti, commensali e passanti. Tra di loro pochissime parole, sguardi e sorrisi, che manifestano la cordiale solidarietà “dopo la faticosa giornata”.
La trasparenza e luminosità che Hirayama riesce a cogliere anche nella “densità” e “ostilità” dell’esistenza, quasi come il baluginare della luce del cielo azzurro o del sole tra le fronde degli alberi (“Komorebi”) osservato sin dalle primissime luci che precedono l’alba – diretto o riflesso su altre superfici – e via via catturato e conservato dal protagonista mediante gli scatti della sua Olympus analogica, è una conquista ardua e al tempo stesso un dono di “grazia”: mai frutto di improvvisazione, ma del perseverante ed esigente esercizio di uno sguardo limpido e amorevole, ricco di tenerezza e misericordia su ogni vita che lo circonda.
Se esiste in lui una speciale consonanza, è con l’esistenza più fragile e bisognosa di cura: come quella dei piccoli germogli d’acero che raccoglie e conserva nel corso della sua pausa-tramezzino nel parco pubblico, attraverso la cura quotidiana di innaffiamento e umidificazione nella propria abitazione; quella del senza-tetto (altro “invisibile” per la città) che ha ormai “superato” i confini limitati della coscienza umana, quasi “fondendosi” nell’imitazione della natura che lo circonda; quella della giovanissima studentessa in divisa, dallo sguardo malinconico e quasi disperato, che consuma ogni giorno il proprio pranzo sulla panchina non distante dalla sua. Ella, sì, probabilmente con il pensiero rivolto a ciò che per Camus costituisce l’“unico problema filosofico veramente serio”, cui tutti gli esseri umani “sani hanno pensato”: il suicidio.
Vedremo, nella seconda parte di questa analisi, se la sapienza buddista – e forse anche quella evangelica – che abita il protagonista potrà portare qualche sprazzo di luce in questi pensieri oscuri…
[1^ parte – 2^ parte]