Cinquant’anni dopo: una lezione di Maritain per l’oggi

Alcune grandi intuizioni di fondo, un metodo, un modo di stare nel mondo e nel tempo: di questo dobbiamo essere grati a Jacques Maritain.
28 Aprile 2023

Nell’agosto del 1934 Jacques Maritain teneva sei lezioni all’Università di Santader: si trattò di un evento che, a posteriori, possiamo definire come uno dei momenti più alti e più fecondi del pensiero cristianamente ispirato del Novecento. Poiché da quelle sei lezioni, poi integrate con altre pagine, nacque Humanisme intégral, un testo di riflessione filosofica quanto mai fondativo per una prassi, per un modo di abitare il tempo e la polis, per un modo di vivere da cristiani che presto, nei drammi della storia contemporanea che sprofondava nell’abisso bellico, avrebbe manifestato tutto il suo portato e la sua intelligenza. Non a caso Giovanni Battista Montini — che di Maritain tradusse Trois Réformateurs e che forse tradusse per primo anche Humanisme intégral, diffondendolo in dispense tra gli universitari —comprese subito la declinazione possibile e la forza delle argomentazioni maritainiane, favorendone la conoscenza e stimolandone applicazione e riflessione. Anche da quel semenzaio sorsero le grandi parabole dell’impegno politico cristiano nel secondo dopoguerra, in grado di ricostruire un continente, in accordo con altre grandi tradizioni culturali e politiche.

La rinnovata esigenza di mettere al centro la persona, in dialogo con altri grandi pensatori, soprattutto francesi (Mounier, in primis), superando la dicotomia tra il materialismo marxista e il liberalismo capitalista, fu un seme fecondissimo delle osservazioni di Maritain, capace come poche volte nella modernità di rinnovare con coraggio cristianamente ispirato il modo di pensare e di essere, gettando le basi per un modo originale di essere cristiani dentro la storia. Nasce così l’«Umanesimo dell’Incarnazione» che evita la fuga, che coglie il valore della persona, che cerca la collaborazione con il non credente non tanto nella teoria, nella convinzione delle idee, ma nell’«opera pratica comune»: una fede che si fa filosofia, che si fa politica, che si fa prassi. Se poi consideriamo il contesto primo novecentesco, anche ecclesiale, si capisce come il rinnovato tomismo di Maritain fosse un atto di audacia, di libertà e di fortezza.

Per questo, cinquant’anni dopo la morte del filosofo, egli rimane come un luminoso esempio di un pensiero libero (non a caso originato da una conversione personale), coraggioso, intelligente: di quel personalismo cristiano oggi molto si è perso, anche per le mutate condizioni storico-sociali e anche antropologiche. Ma alcune intuizioni di fondo rimangono, insieme a un metodo per leggere la realtà ed elaborare categorie di pensiero, in un oggi di attraversamento dove il pensiero e la ragione soccombono sotto i colpi di un’emotività dominante e anche antropologicamente mutila. La fiducia nella ratio, da risvegliare, senza però amputare altri parti dell’umano: è questo un umanesimo veramente integrale che Maritain lascia come eredità per chi sente l’urgenza di nuovi modi di vedere, di pensare, di vivere da cristiani nel mondo, senza cadere nelle reti di una nostalgia medievaleggiante su cui Maritain aveva preso in modo netto le distanze, mostrandone i numerosi limiti.

«Il cristiano è nella storia; perché vi rende testimonianza d’un mondo sovra-storico dal quale egli è, non vuole impiegarvi che mezzi buoni»: parole che risuonano ancora oggi con profezia.
Personalmente, pochi testi mi hanno arricchito come Humanisme intégral, a partire da quel monito: «Non esiste un Umanesimo della tiepidezza».
Nel ricordare i cinquant’anni senza Maritain, possiamo rileggere le sue opere o, almeno, una pagina che sia lascito e chiamata alla responsabilità:

«La paura d’imbrattarsi entrando nel contesto della storia è una paura farisaica. Non si può toccare la carne dell’essere umano senza imbrattarsi le dita. La Chiesa cattolica non ha mai avuto paura di cessare di essere pura, toccando le nostre impurità. Se invece d’essere nel cuore, la purezza sale alla testa crea settari ed eretici. Alcuni sembrano pensare che por mano al reale, a questo universo concreto delle cose umane ove il peccato esiste e circola, è contrarre peccato come se il peccato si contraesse dal di fuori e non dal di dentro. Pretendono allora di interdire alle coscienze l’impiego di ogni mezzo in sé non cattivo, al quale gli uomini han fatto un contesto impuro (proibizione a uno scrittore di pubblicare, perché la produzione moderna è impura; a un cittadino di votare, perché il Parlamento è impuro); esigono che le coscienze rifiutino di cooperare all’opera comune degli uomini quando i mezzi impuri vi si mescolano per accidente (come accade sempre)».

Questo è, ribadisce Maritain, farisaismo. Che non è evangelico, ovviamente.
Per i laici, primariamente, è una chiamata a stare nella storia, amandola, servendola, costruendola.

Una risposta a “Cinquant’anni dopo: una lezione di Maritain per l’oggi”

  1. Claudio Menghini ha detto:

    Urge rileggere il contadino della Garonna. Il vero e il miglior Maritain è quello finale, quello che denunciava le derive ereticali postconciliari e condannava la ” cronolatria ” ovvero la subalternità cattolica alle mode passeggere.

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