Mi infastidisce il fatto che Papa Francesco venga spesso definito un “grande comunicatore”, con riferimento agli ampi spazi che ottiene sui media grandi e piccoli. Mi infastidisce perché, lavorando nel campo, so quanto di costruito ci sia nella comunicazione mediatica, dove poco è spontaneo, nulla genuino. Gli uomini pubblici, le aziende e le organizzazioni sanno quanto essa è importante, e proprio per questo si circondano di portavoce, uffici stampa ed esperti vari, investendo denaro, competenze e tempo per “costruire” la propria immagine e farla conoscere insieme – a volte, ma non sempre – alle proprie idee.
Papa Francesco ha a che fare con tutto questo?
Un giorno mi trovavo in una parrocchia in cui tenevo un corso sui media ad un gruppo di adulti. Ad un certo punto, un maturo signore ha esclamato: «… E poi non capisco come fanno a dirsi cattolici quelli che vanno a Messa con la Repubblica sotto il braccio». Ho glissato perché il tema era sfuggente e non c’entrava col lavoro che stavamo facendo in aula, ma alla fine dell’incontro, cercando l’agenda nella borsa, soprappensiero ho tirato fuori la mia copia di Repubblica, facendo impallidire il mio sanguigno interlocutore.
In realtà, mi è capitato più volte di vedere demonizzare la Repubblica. Perciò confesso: leggo questo giornale abbastanza regolarmente, nonostante mi irriti l’ostinata ottusità che mostra nell’affrontare alcuni problemi ecclesiali. Ma solo alcuni. Per il resto, lo trovo un buon quotidiano, che dà notizie sufficientemente ancorate ai fatti (il che per altre testate è un optional) e propone interpretazioni e dibattiti interessanti. Perché molti cattolici odiano e temono il quotidiano che in questo momento è più venduto in Italia? Io penso perché temono chi ha posizioni diverse, sa argomentarle e attorno ad esse conquista consensi. Cioè temono gli interlocutori “forti”.
Dunque, quella mattina in cui ho visto la sua lettera sbandierata in prima pagina, anch’io – come il giorno prima i rifugiati del Centro Astalli – ho detto “grazie” a Papa Francesco. Perché con quella lettera su quel giornale ha rilanciato il dialogo dei credenti con i non credenti, ma anche con i difficilmente credenti, i diversamente credenti, gli occasionalmente credenti, i forse credenti e quant’altro esiste e occupa tutti gli spazi intermedi tra quelle due categorie. Dunque – ho pensato – davvero questo Papa non ha paura di nessuno e rispetta ciascuno, forte o debole che sia, compresi i lettori di Repubblica e soprattutto il suo raffinato ma ingombrante fondatore ed ex direttore, che dice di non credere in Dio e di non cercarlo nemmeno.
Come tutte le cose che fanno davvero notizia, anche questa si è propagata come i cerchi del sasso nell’acqua, e non c’è stata testata cartacea, televisiva, radiofonica o web che non l’abbia ripresa, riassunta, spiegata e commentata a proposito e a sproposito. Dunque, a rigore, quella lettera è stata una mossa mediatica indovinatissima: con un colpo solo, il Papa ha parlato di Dio a milioni di persone.
Eppure continua a infastidirmi questa idea del Papa comunicatore. Non è Montalbano: scritto, sceneggiato, truccato, girato, montato, confezionato. E non è neanche Obama: carismatico sì, ma anche telegenico e superaccessoriato dai consigli e dai rapporti del suo staff. Non sono abile nelle dietrologie, e forse sbaglio perché a guardare le cose solo di fronte si rischia di vederle in modo un po’ troppo superficiale. Comunque non so cosa ci sia dietro a questo e ad altri gesti di Papa Francesco: quanto siano studiati a tavolino e se siano inseriti in una consapevole strategia di comunicazione. Ma guardandolo dal davanti, mi viene da pensare che no, non sia una questione di strategie, ma una questione di modo di essere e scelte di vita.
Ciò che sta facendo questo Papa, è di ricongiungere l’essere all’espressione, la sostanza al linguaggio, il dentro al fuori, il ciò che sono al ciò che dico o faccio, l’anima all’immagine. Dando luogo a una comunicazione che non è un atto razionale preordinato ad un obiettivo preciso, ma è eruzione della vita, dei sentimenti, dei pensieri che ribollono sotto la pelle di un uomo.
Questo Papa non cerca le folle, anche se quand’è il momento – come per la Giornata Mondiale della Gioventù – sa affrontarle. Cerca piuttosto le singole persone, non importa se attraverso una telefonata o isolandole per un momento dalla massa, come durante le udienze. Cerca un volto da riconoscere, nei cui occhi fissare lo sguardo. E sa usare, per ogni persona, il linguaggio e lo strumento giusto: una carezza o un abbraccio per chi non ha parole, parole semplici per chi vuole e per chi non vuole capire, una telefonata per ascoltare la voce dell’altro, una lettera da pubblicare a chi lo ha pubblicamente interpellato. I suoi gesti e le sue parole hanno il sapore della reazione spontanea e solidale che può avere chi guarda con dedizione il volto delle persone e non si nega a nessuno.
In fondo, gli altri sono altri finché non li guardi in faccia: dal momento in cui gli permetti di uscire dall’anonimato cominciano a fare parte del “noi”.
Dunque, più che un Papa bravo comunicatore, preferisco vedere in Francesco un Papa aperto all’incontro con gli altri e al dialogo, disposto ad incarnarsi nelle relazioni. Perché, come ha scritto uno che la comunicazione l’ha fatta seriamente, Emilio Rossi, «alfine ci ha pure creato, a sua immagine e somiglianza, un Dio che è Logos, Logos comunicato, anzi incarnato» (L’undecima musa, Rubbettino 2001, p 33.).