ANNO C – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Gv 2, 1-11
Il vangelo di Gv viene distinto dai biblisti in due parti: la prima (1,19 – 12,50) viene chiamata il “libro dei segni”; la seconda (13,1 – 20,31) il “libro della gloria” (o dell’ora). Il brano di oggi ci mostra l’inizio (v. 11) del libro dei “segni”: azioni, miracoli o gesti simbolici di Gesù, attraverso i quali vengono sostituite le forme del rapporto con Dio tipiche dell’antico testamento, con quelle portate da Gesù, nella sua stessa persona. Ma quel “inizio” del v. 11, per la parola greca usata, si deve tradurre soprattutto con radice, fondamento, cioè la sorgente di tutti gli altri “segni”.
Quindi un brano fondamentale per Gv, che, al di là degli altri innumerevoli significati simbolici possibili, ha il centro del suo essere “segno” nella sostituzione dell’acqua con il vino (v. 9). La storia è nota. E quando Gesù decide di operare si dice: “C’erano, giacenti là, sei anfore di pietra, per la purificazione dei Giudei, capienti ciascuna da 80 a 120 litri di acqua” (v. 6). Non si tratta dei normali contenitori di terracotta per l’uso dell’acqua domestica, ma di cisterne inamovibili, spesso presenti all’ingresso delle case degli ebrei osservanti, da usarsi, per motivi rituali di purificazione, dopo il ciclo mestruale o il parto per le donne, prima delle festività o dello Shabbat per gli uomini, ma anche per tutti gli invitati prima di un matrimonio.
Erano l’applicazione letterale di Lv 11-16, in cui si mostra come l’uomo, senza azioni purificatorie, sia indegno di stare alla presenza di Dio, e perciò, è spinto a sentirsi impuro, non adeguato, colpevole e bisognoso di perdono. Atteggiamento che ancora troviamo nella predicazione di Giovanni Battista (Gv 1,31 e Lc 3,7-9). In questo stile, l’ebreo trovava nell’osservanza della legge di Mosè, scritta sulla pietra come le anfore di questo brano, lo strumento sicuro per poter accedere a Dio.
Gesù scardina questa mentalità, proprio attraverso il “segno” di Cana, in quattro passaggi linguistici usati da Gv.
Il primo. “Il maestro di tavola” (v. 9). È colui a cui sono demandati il buon andamento e il successo del matrimonio. Un ruolo, perciò, perfettamente integrato e prescritto nelle regole sociali e culturali del tempo. Ma è proprio lui che, pur non sapendone l’origine, riconosce la superiore qualità del vino portato in tavola per ultimo (v. 11). Diventa, perciò, il simbolo di quella dimensione umana e sociale, così svalutata nel suo accesso a Dio da Lv 11-16, che però sa cogliere, sa percepire ancora il valore della novità soprannaturale che “degusta” (v. 9), anche senza saperne l’origine.
Come a dire che in Cristo, l’uomo, così com’è, pur con tutte le sue ferite e mancanze, anche nelle più strane forme socio culturali può accedere direttamente alla gloria di Dio e percepirne il valore che si riverbera nelle dimensioni umane, anche quando non conosce da dove proviene quella gloria. Da Cristo in poi non c’è bisogno di una purificazione previa per accedere al trascendente, ma anzi nell’umano così com’è, compreso pure l’essere peccatore, c’è ancora la possibilità di percepire il valore e l’attrazione della pienezza della gloria di Dio. Esiste, cioè, un passaggio possibile dall’ordine naturale a quello soprannaturale.
Il secondo. “Il vino buono” (v. 10). Simbolo biblico densissimo, il cui significato primario è la pienezza di vita (gioia, benedizione, abbondanza) promessa da Dio ai credenti (Is 25,6), e resa possibile dalla nuova alleanza in Cristo (Mt 26, 27-28). Ma, per poterla vivere, ciò richiede un rinnovamento spirituale (Lc 5, 37-39), e la necessità di una attenzione al proprio comportamento (Pr 20,1), perché si può rischiare il fallimento della propria vita (Ap 14,10). Perciò, nel simbolo del vino si intravvede tutta la dinamica della salvezza: Cristo demolisce la vecchia idea di rapporto con Dio fatto di rispetto della legge (purificazione con l’acqua) e inaugura quella nuova fatta dalla gratuità (il vino donato in modo inatteso).
Ma si tratta di un vino “buono”. Qui l’aggettivo greco rimanda ad una percezione sensoriale ed estetica di questo vino e non etica. La radice, perciò, del nuovo accesso a Dio non sta nello sforzo umano di essere fedeli alla Legge esterna, ma nell’esperienza esistenziale che coinvolge tutta la persona, (dalla testa ai piedi) del sentirsi riempito di vita gratuita. Cristo non chiede sforzo, ma adesione da innamorati!
Terzo. “Riempirono le giare fin sopra in alto” (v. 7). Si può intendere fino all’orlo, ma anche fino alle altezze soprannaturali che il dono di Cristo rende possibili. L’amore regalato, e che si regala, in Cristo non ha limiti, ma arriva “fino alla fine” (Gv 13,1). L’etimo della parola “vino” viene, da una radice sanscrita che indicava l’avvio di un processo di distacco da sé e la possibilità di offrirsi amorevolmente. L’amore, perciò, non si “adempie” (ad-empire, portare a pienezza) con un comportamento limitato, ma con la consegna totale di sé a Cristo, che permette di vivere “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo, e di conoscere questo amore che supera ogni conoscenza” (Ef 3, 18-19).
Quarto: “Hai conservato il buon vino fino ad ora” (v. 10). La nuova modalità di accesso a Dio produce una nuova dinamica esistenziale. Restando solo nella dimensione umana ogni uomo (v. 10) tende a volere “tutto subito”. Modalità che porta ben presto a “toccare il proprio limite” (questo è il senso dell’etimo di “ubriaco”) e a non saper più distinguere nemmeno il piacere del gusto, per la tendenza a trangugiare il “vino”, ad appropriarsi e a divorare la vita, perdendone proprio il senso.
Nella dinamica gratuita di Cristo, invece, possiamo attendere, “fino ad ora”, fino a quell’ora di Cristo. E questo consente di continuare a “gustare” quel vino, senza doverlo per forza trangugiare e perdere ben presto, lasciando che il suo amore ci afferri sempre di più fino a poter dire: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita che vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20).
Fare la conoscenza di Gesù il. Risto Risorto, significa incamminarsi per un percorso diverso di vita, un inizio di storia uguale e diversa da quella del popolo ebraico, come i figli allargano la famiglia, così il Figlio di Dio ha aperto l’a. Esso alla Casa del Padre a tutti gli altri popoli, uomini in cerca di Dio. Anfore piene di vino prelibato, berlo per gioire, per godere, ciò che mancava a un progredire nella conoscenza e saggezza di Dio, Cristo e la sua Chiesa hanno realizzato. Il fatto che nel mondo sia diventato quello che vediamo, e che il vino proviene da una vite che vignaioli altri hanno anche saputo trasformare il prodotto per rispondere a certo redditizio mercato. La vite produce frutto quando coltivata, dall’uva il vino e bevanda che infonde allegria, e Cristo ha portato questa come dono alla festa di nozze, in Lui vi è compimento di quanto era desiderio del Padre, essere conosciuto attraverso segni di amore dalla umanità tutta
Il brano comunica la salvezza nella tragicità degli eventi, tutto il resto è superfluo e il superfluo è diabolico. Di fronte all’impossibilità di redimere il corso degli eventi, il mero sterile fatalismo o gli inutili estremi tentativi diventano salvifica fede nella salvezza.