Bartimeo, ovvero della dignità dell’uomo

Un racconto simbolico che mostra come, finalmente, il credente acceda alla vera fede
27 Ottobre 2024

ANNO B – XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Mc 10,46-52

Dopo il riconoscimento da parte di Pietro dell’identità di Gesù (8,29), nonostante i tre annunci della necessità della morte e resurrezione (8,31; 9,31; 10,33), nonostante l’esperienza della trasfigurazione (9, 2-13) e della sua potenza liberatoria (9, 14-29. 38-41), i discepoli non riescono ancora ad entrare davvero nella logica dell’amore assoluto di Dio, perché chiusi dentro all’attaccamento all’avere (10, 17-31) e al desiderio di potere (10, 35-45), sono avvolti da una coltre di nebbia fumosa (il significato etimologico della parola “cieco” in greco) e non riescono perciò ancora a “vedere” Gesù per quello che è.

Con il testo di oggi Mc, proprio prima del racconto della pasqua, ci consegna, invece, un racconto simbolico che vuole rappresentare la conclusione del cammino del discepolo che, finalmente, esce dalla logica del potere e dell’avere e accede alla vera fede.

Bartimeo, all’inizio, chiama Gesù “figlio di Davide”, cioè colui che, come Davide, attraverso potere, violenza e denaro, renderà agli Ebrei la possibilità di tornare a vivere nel benessere tranquillo della terra dove scorre “latte e miele”. Espressione che ricorre 28 volte nell’A.T. per indicare la condizione di benessere del regno promesso a Israele. Ma dentro a questa logica Bartimeo “cieco mendicante, sedeva a lato della via” (v. 46). Cioè, proprio la permanenza dentro a questa logica, così solo umana, non gli consente di vedere la realtà della vita per quello che è e di realizzare questa sua aspettativa, restando fermo ai margini del cammino e finendo per dover implorare un briciolo di “vita” dalla vita degli altri.

La stessa condizione di molti di noi cristiani che abbiamo “intravvisto” qualcosa della verità di Gesù, ma immaginiamo che lui realizzi le nostre aspettative di felicità, secondo le nostre forme, i nostri tempi, i nostri progetti. E quando ci rendiamo conto che ciò non è possibile, restiamo bloccati dentro al nostro schema e cominciamo a “mendicare” possibilità, affetti, potere, energie, dagli altri come brandelli di “vita” che continuano ad illuderci, finendo per utilizzare anche Dio come “superpotere” che ci consenta di perseguire la nostra “visione” del mondo.

Ma Bartimeo fa una cosa diversa, che gli permette una via di uscita: “cominciò a gridare” (v. 47). La radice greca di questo verbo contiene l’idea di un dolore lancinante, che si trasforma in lamento scomposto, che esce in modo “stonato” (come il verso del corvo), però così potente che non può essere trattenuto. Bartimeo, trova una via di usicta perchè non si rassegna alla impossibilità di una vita piena, non accetta che la sua voglia di vivere per intero venga uccisa dall’esperienza del limite e invece di accanirsi a voler vincere quel limite, ne grida il dolore a quell’uomo.

E qui si rivela il senso del suo nome: Bartimeo significa “figlio dell’onore”, cioè colui che ha un valore che gli è stato consegnato dalla nascita, la sua dignità di persona, dignità che lui non vuole perdere e perciò non accetta di farsi “spegnere”. Infatti non si adatta allo schema sociale che lo vuole tacitare, anche se infastidisce gli altri: “molti sgridavano lui affinché si ammutolisse” (v. 48). Dove la radice del verbo sgridare contiene proprio l’idea che qualcuno metta il coperchio alla sua dignità. E il verbo ammutolire indica un silenzio imposto non scelto, l’impossibilità di parlare perché altri lo decidono.

Ecco, proprio in questo suo gridare “molto di più” (v. 48) continua a vedersi la sua dignità, il suo valore, la forza della persona umana, che non recede davanti al limite. Come, invece, a volte facciamo noi, o incattivendoci davanti a un Dio che non ci da quello che vogliamo, o rimandando ad un al di là la pienezza della vita, rischiando di rendere la fede un “valium” anestetizzante. Bartimeo, nonostante non “veda” non molla, sente che ha diritto ad una vita intera perché dentro di lui il richiamo originario ad essere “immagine e somiglianza” di Dio non è morto.

Davanti a questo Gesù “sta”. Per due volte (v. 47. 49) il testo usa il verbo essere, nel senso di stare, di esserci, per indicare l’atteggiamento di Gesù, quasi come se la sua presenza “passiva” già di per sé sia attraente. E quando Gesù “fa” qualcosa, si limita a farlo chiamare. E questa strana “passività” di Gesù viene confermata dal fatto che a Bartimeo la voce gli arriva solo attraverso dei “mediatori” che gli dicono: “Coraggio, alzati, chiama te” (v. 49). Ma qui non viene usato il verbo classico della “chiamata” dei discepoli, ma un altro verbo (tre volte nel v. 49), tradotto sempre con chiamare, che sarebbe meglio rendere con “dare una voce che mostra la luce”. Luce e voce hanno la stessa radice in greco, ma per un cieco la sovrapposizione vale ancora di più: la voce diventa la luce che gli permette di provare a orientarsi e a muoversi.

Così il testo ci dice che il grido del nostro valore negato lanciato a Dio, non serve a cambiare il cuore di Dio che è invece sempre attivo e aperto per amarci, immaginando di “strappare” a lui un miracolo. Serve, invece, attraverso la relazione con gli altri (i mediatori) che ci possono rimandare una visione diversa dalla nostra, a cambiare il nostro modo di “vedere” le cose, tornando a percepire il coraggio di “alzarci”, di stare sulle nostre gambe come persone dignitose e di valore, perché cambiando il nostro schema, l’accesso a Dio, in sé sempre possibile, diventa reale per noi.

In questa iniziale “voce – luce” Bartimeo, allora, fa tre cose significative (v. 50). Con forza e decisione, getta via il suo “mantello”, simbolo dello schema che lui stesso ha adoperato finora per vedere la realtà e che gli ha fatto da “giaciglio” e “protezione”, impedendogli di far fiorire la propria dignità. Secondo: balza “in piedi”. Anche qui con un gesto rapido e forte, riprende la postura eretta dell’uomo e smette di stare seduto e fermo. Terzo: viene “verso Gesù”. Seguendo quella voce, non si mantiene più “a lato della via”, ma rientra in essa e si muove deciso, chiamato da quella fonte.

Solo a questo punto Gesù risponde a lui con la stessa domanda fatta a Giacomo e Giovanni in 10,35: “Cosa vuoi che io faccia a te?” (v. 51).  A dire che il cuore di Dio è sempre disponibile a noi, per la nostra felicità, ma se noi non “vediamo bene” chiederemo a lui ciò che non realizza il nostro valore, come Giacomo e Giovanni. E proprio per questo Dio non ce lo da, perché ci ama.

Infatti Bartimeo, a questo punto, non lo chiama più figlio di Davide, secondo la vecchia logica abbandonata, ma “rabbunì” (v. 51). Un termine meraviglioso, usato solo due volte nella bibbia e solo nei confronti di Gesù, che indica un rapporto di affetto, intimo ed esclusivo con Lui, riconosciuto come proprio maestro personale di vita. Come a dire che Bartimeo ha deciso di fidarsi di quell’uomo che lo ha chiamato, e ora comincia a riconoscerlo come suo Signore. Già questo, ancora prima di essere guarito dalla cecità, si configura per lui come una fede autentica in Gesù, che gli permette di sentirsi “risorto” esistenzialmente. Non a caso l’altro passo di “rabbunì” è Gv 20, 16, quando Maria Maddalena riconosce Gesù risorto.

In questa fede, allora, la richiesta di Bartimeo è, finalmente, quella giusta: “che io veda di nuovo” (v. 51), cioè che quella fede sia in grado di illuminare tutta la sua vita e di comprenderne finalmente il senso pieno: “subito vide di nuovo e seguiva Lui sulla via” (v. 52).

 

3 risposte a “Bartimeo, ovvero della dignità dell’uomo”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    Condivido con voi quello che la Parola tramite Gil mi ha mosso dentro.
    Sì, mosso. Perchè chi di noi è contento della nebbia che ci avvolge come veri ciechi??
    Siamo ben consci degli assassini di vite umane, degli uccisori di speranze, degli spargitori di DISONORE sulla umanità… Ma non rinunciamo al ns mantello di isolamento e protezione no! Noi non ci leviamo in altum e GRIDIAMO URLIAMO invocando Dio che sovvenga alla ns incapacitá rinunciataria e rinnegata.

  2. ALBERTO GHIRO ha detto:

    ….
    Allora stesso modo il credere è possibile solo se riferito all’oggetto in cui credere e non al soggetto ovvero noi stessi e alla nostra capacità di credere che è paragonabile alla capacità di vedere.
    Vedere è l’effetto del credere il cui oggetto, paradossalmente, non è visibile, così essere se stessi è l’effetto dell’essere figli, conoscere se stessi è possibile solo volendo conoscere un padre.

  3. ALBERTO GHIRO ha detto:

    Grazie Gilberto è una bellissima pagina sull’anticonformismo, dove la scontata parola conformismo indica un vizio di cui siamo affetti ora ma anche ai tempi del vangelo e che colpisce la religione oltre che la società. Il conformismo si vede nella gente che tenta di ammutolire Bartimeo che vuole gridare se stesso.
    Il regno di Dio è il mondo annunciato, diverso dal nostro in cui siamo ingabbiati, a cui può tendere il desiderio di una vera libertà e non di quella illusoria che si può esprimere dentro una gabbia. Il grido parte dalla conoscenza di sé che non è possibile se non in relazione con Dio che diventa l’oggetto del nostro conoscere diverso dal soggetto, ovvero noi stessi. Non è possibile conoscere l’oggetto se questo coincide con il soggetto.

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