“L’eccesso di informazione di cui disponiamo genera gradualmente – scusate il neologismo – la ‘naturalizzazione’ della miseria. Vale a dire, a poco a poco, diventiamo immuni alle tragedie degli altri e lo consideriamo come qualcosa di ‘naturale’. Sono così tante le immagini che ci raggiungono che noi vediamo il dolore, ma non lo tocchiamo, sentiamo il pianto, ma non lo consoliamo, vediamo la sete ma non la saziamo. In questo modo, molte vite diventano parte di una notizia che in poco tempo sarà sostituita da un’altra. E, mentre cambiano le notizie, il dolore, la fame e la sete non cambiano, rimangono.” (papa Francesco)
Da questa sottolineatura – che riguarda ovviamente uno specifico contesto sociale e umano di privazione e sofferenza – raccogliamo un elemento di giudizio per l’episodio di pubblicazione del video della funivia del Mottarone che, oltre ad essere fatto di rilevanza penale, risulta inquietante e drammatico. In mezzo all’eccesso di immagini che ormai mostrano anche ciò che non potrebbe/dovrebbe essere raccontato (al limite dello splatter o dell’oscenità visiva), divulgare un video così non toglie e non aggiunge nulla alla vicenda (almeno dal punto di vista dell’opinione pubblica), anzi alimenta una strana, dolorosa e inquietante curiosità, irrispettosa della memoria di coloro che – in quelle immagini – stanno morendo e irrispettosa dei loro cari.
Riprendo un testo molto interessante di A. Ferrante (L’oscenità dell’immaginario mediatico: riflessioni critiche e contromisure pedagogiche, in: MeTis, Saggi, Anno V, n. 2):
«La pedagogia dell’osceno in atto nell’immaginario mediatico produce un progressivo impoverimento simbolico dello sguardo dei soggetti, dovuto alla maniacale ossessione di rendere tutto visibile e fruibile. L’incapacità di sporgersi oltre la mera datità fattuale dell’immagine conduce i soggetti ad appiattirsi sul già dato, a non riuscire più a concepire altri scenari possibili e genera un radicale disinnamoramento rispetto alla natura, agli altri esseri umani, agli animali non-umani, agli oggetti, in quanto questi acquisiscono solamente un estemporaneo valore estetico. Nell’immaginario mediatico dominante tutto è quello che è, non ha un altrove, esiste solo per essere divorato, consumato, offeso, svilito. Le immagini divengono spettacolari contenitori senza contenuto, involucri vuoti, simulacri, ricettacoli di sensazioni. L’indifferenza al dolore reale sottesa a questa modalità di fruizione è il sintomo più evidente di una crisi del senso, del mistero, della percezione di un destino condiviso.
A fronte dello sguardo impoverito del fruitore, che è irresponsabile, vorace, autocentrato, incapace di rabbrividire dinnanzi alla fragilità delle cose, bisognerebbe allora incentivare l’emersione di uno sguardo utopico, disallineato, incompiuto, che sappia rendere opaco il mondo e predisporsi a una rinnovata eticità nel rapporto con le immagini e soprattutto con il tessuto di relazioni simboliche, sociali, materiali a cui le immagini rimandano.
Occorre dunque rieducare lo sguardo […] non nel senso di raddrizzarlo o correggerlo tramite una sorta di “ortopedia visiva”, bensì in quello di sradicarlo, sviarlo, gettarlo in un altrove possibile, in un al di là dell’immagine concreta, che interrompe l’ossessione per il visibile: “Si tratta allora di operare per rigenerare uno scenario culturale legato più al regime immaginario della notte, delle sue forme cicliche e sintetiche, femminili e telluriche, occorre una compensazione d’ombra, che significa reagire all’iniezione costante di adrenalina e luminosità violenta che il contesto febbrile dell’operatività contemporanea sembra richiedere incessantemente […]. Occorre apprendere appunto a non vedere, ad accettare un certo grado di mistero e di limitazione, nell’accesso alle cose, imparare a non sventrare i problemi con l’ausilio di una razionalità ossessionata dalle buone intenzioni o da un pragmatismo fanatico” (P. Mottana, La visione smeraldina. Introduzione alla pedagogia immaginale, Milano, Mimesis, 2004, pp. 46-47).»
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, scrive A. De St. Exupéry ne Il piccolo principe. E l’educazione dello sguardo, cioè dei sentimenti e della percezione, rientra a pieno titolo in quell’essenziale che ogni società civile dovrebbe curare. È il passo fondamentale per creare le condizioni di un futuro diverso; è il percorso che il mondo adulto deve mettere a disposizione delle giovani generazioni per imparare a guardare il mondo e gli altri con compassione. Educare significa offrire ai più piccoli una società nella quale «i valori non sono solo business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco» (U. Galimberti, L’ospite inquietante).
Chi crede nell’importanza dell’educazione, crede nella necessità di educare in una comunità di valori. Per educare un bambino non basta un maestro, ma occorre un villaggio: solo ritrovando il coraggio di gesti e segni che danno valore al vivere (e al morire) – senza rassegnarsi o abituarsi all’oscenità delle immagini – potremo ri-imparare (e consegnare) quell’arte del contemplare il mondo che lo restituisce alla sua dimensione di realtà, alla bellezza fragile dell’umano e – ultimamente – al suo Creatore.
Educare a saper guardare, vedere il bello, il buono, il grande; avere sensibilità e provare quei sentimenti che sono sensori di umanità; avere mente e cuore per non diventare avidi di emozioni tali che niente è più orrendo, abbastanza mostruoso come certe fiction ormai hanno abituato. Si direbbe che il dolore non tocchi più il cuore perché non si ha pudore a ritrarsi, a fare silenzio. Si ha l’impressione che ormai tutto sia diventato oggetto di mercato, per attrarre lo spettatore ogni accadimento diventa da filmare, raccontare, storia perfino sfinita di emozione. Il parlare velocemente concitato del cronista, mette ansia al l’ascoltatore che non vuole essere assalito dalle notizie, subire idee, video ed a mozioni, di tanta premura invadente. Forse si sta uscendo da certi limiti, e non ci si rende conto di limiti a rispettare una privacy Si chiamava buona educazione, La rispettosa silenziosa compartecipazione al dolore umano