I buoni sanno vedere la bellezza. Anche dove è difficile pensare che ci sia.
Roma è una città allo sfascio, eppure ogni giorno, andando e tornando dal lavoro, faccio il percorso più bello del mondo. Circumnavigo Santa Maria Maggiore; scendo da Via Nazionale e ammiro la colonna Traiana che si staglia incorniciata da due palazzi; attraverso piazza Venezia; dò un’occhiata alle rovine romane di largo Argentina, poi alle linee rinascimentali di Palazzo della Cancelleria, poi a quelle barocche create da Borromini per l’Oratorio dei Filippini; mi lascio sulla destra la mole calda di Castel Sant’Angelo, che contrasta con il bianco freddo dei marmi dei ponti sul Tevere; mi allungo per Via Conciliazione, dove in certe ore il cupolone di staglia come un diamante contro il cielo blu del crepuscolo… Ogni ritorno a casa è una seduta terapeutica che riconcilia con la città e con il mondo.
Solo che io non sono buona, per cui quando, quando dopo aver costeggiato l’aula Nervi, ritorno nei quartieri degli anni sessanta, tra cassonetti da cui l’immondizia tracima, erbacce che crescono ovunque, autobus che non passano, ragazzini che non cedono il posto perché manco ti vedono, mendicanti che insistono, automobilisti che si arrabbiano, anziani che camminano lenti con la badante, senza scambiare con lei una parola più dello stretto necessario… beh, allora mi torna la rabbia e la voglia di ribellione.
Non che i buoni non si ribellino, anzi. Ma sono più capaci di vedere la bellezza anche dentro le cose che fuori sono brutte. Quindi anche nei quartieri degli anni sessanta. Perciò la loro ribellione è duratura, perché ha uno scopo: tirare fuori la bellezza che c’è dentro le cose e dentro le persone.
Nel suo romanzo “Cecità”, José Saramago ha scritto: «È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria». Ma i suoi protagonisti erano ciechi. Non vedevano la bellezza. I buoni sanno che siamo fatti metà di dolore e metà di bellezza. La cattiveria e l’indifferenza di cui parla Saramago, sono solo la scorza. Che può essere molto spesso, ma comunque nasconde, dentro, qualcos’altro.
Ogni uomo è figlio di Dio. Per ogni uomo Gesù è morto, in ogni uomo c’è una traccia del volto di Cristo, una scintilla di salvezza. Il buono lo sa e la cerca. Anche se è difficile, esce da se stesso e si immerge nelle storie degli altri, alla ricerca di quella goccia di luce.
Il buono non dice che i Rom rubano. Dice che ci sono dei Rom che rubano, altri no, ma che tutti vivono male. E si chiede su che cosa si può far leva perché si rimettano in piedi. Per esempio tirandoli fuori dai campi, dando loro così un po’ di dignità.
Il buono sa che è giusto che chi delinque venga punito, ma non pensa mai che sarebbe meglio metterlo in prigione e buttare via la chiave. Perché è convinto che dentro ogni cuore, anche quello di chi sbaglia, c’è un punto di luce cui appoggiarsi per ripartire, per ricostruirsi una vita più retta.
Il buono quindi dà a tutti un’altra possibilità. Sa che nessuno è totalmente buono e che nessuno è totalmente cattivo, che nessuno è totalmente bello e che nessuno è totalmente brutto, ma che in ognuno c’è quel pizzico di bellezza – la goccia di luce – che lo rende umano. E sa che bisogna scoprirla ed educarla (nel senso etimologico, di e-ducere, cioè tirare fuori).
Quando torno dal lavoro riempiendomi gli occhi della città più bella del mondo, ne ammiro le superficie. E quando arrivo nella città moderna – che non è la più bella del mondo – ne disprezzo la superficie. Il buono penetra attraverso entrambe e coglie quello che c’è dentro. Non lo preoccupa l’estetica del condominio, ma lavora perché si costruiscano relazioni significative tra vicini di casa. Il bello – le relazioni – dentro il brutto – l’anonimato condominiale. Riesce a vedere la scintilla di luce nell’anziana, ma anche nella badante. E perfino nel ragazzotto perso nello smartphone.
Per questo riesce a fare del bene: perché non impone la propria idea di ciò che è bene e ciò che è male – il bene non può essere un’ideologia, uno schema astratto che si impone a chiunque – ma coltiva la scintilla che già c’è. Non pretende di cambiare le persone, ma cerca di creare le condizioni perché tirino fuori la bellezza che hanno dentro, trovando la propria via al bene. Solo così possono cambiare, diventando la versione migliore di se stessi.