Fare scuola oggi: resistenza o resilienza?

Sta per finire il secondo anno scolastico del tempo pandemico e sembra sempre più difficile vivere la scuola come quello spazio di libertà testimoniato da tutti i grandi educatori della storia.
21 Maggio 2021

“Togli l’audio e giudica le persone solo per le loro azioni!”.

Veronica è la protagonista del film 7 ore per farti innamorare. Promette di insegnare tecniche di seduzione che permetteranno anche all’uomo più timido di conquistare una donna in sole sette ore. L’attrazione è una legge biologica fondamentale, ma gli uomini ne hanno smarrito la grammatica perché l’hanno sepolta sotto quintali di parole, frasi, bugie, aspettative sociali. La prima regola per ritrovarla è spegnere l’audio e giudicare le azioni. Non so se il consiglio funzioni davvero nelle relazioni, ma mi sembra un’ottima prospettiva per parlare di scuola.

Quasi un mese fa licenziavo alcune brevi riflessioni sul curriculum dello studente, mettendo in evidenza una doppia contraddizione sistemica: in primo luogo, lo studente vede certificato come merito personale quello che è, invece, prima di tutto investimento economico e culturale della famiglia. In secondo luogo, la scuola trasformandosi in un ente certificatore di esperienze e competenze che lo studente matura in altri contesti, depotenzia la propria missione di proporre percorsi qualificanti per tutti. Quanto finora è emerso nel dibattito pubblico sul curriculum dello studente non mi pare abbia smentito questa doppia contraddizione. Qualcuno semmai ha tentato di mostrarne la legittimità. Obiettivamente, con scarsi risultati. E, con buona pace di qualche campione che, non senza un qualche conflitto di interessi, pontifica su linkiesta, la pensano così anche alla Consulta. Se persino il buon Ernesto (non il Che, ma Galli della Loggia) ha avuto da ridire sul curriculum dello studente, vuol dire che ci troviamo di fronte a un’assurdità di dimensioni sesquipedali.

Anche i (pochi) commenti al mio contributo non hanno toccato il cuore del problema, ma si sono concentrati con toni più o meno garbati sull’utilizzo di categorie come «scuola borghese» o «capitalismo», derubricate ad arnesi del Novecento non più in grado di restituire i cambiamenti e la complessità del presente. Ma nella misura in cui queste critiche colgono il pericolo di un eccesso di modellamento teorico denunciando la scarsa aderenza di quelle categorie al mutato contesto storico sociale, in realtà, ripropongono, su un piano diverso, esattamente la stessa questione teorica. Quello educativo non è un sistema neutro, valido universalmente in ogni luogo e in ogni lago, ma fa i conti, sia nella sua dimensione teorica che nelle sue articolazioni pratiche, con le priorità economiche della società, la trasformazione delle istituzioni sociali o quella delle agenzie educative, la visibilità di processi di emarginazione, l’emersione di nuove forme di povertà, la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa. In definitiva, la scuola riflette, ripropone, legittima e invera l’attuale contesto socio-economico perché risponde all’esigenza di formare le nuove generazioni esattamente intorno ai valori formali, informali e non formali della società di cui è espressione. Questa ambiguità è presente perfino nell’etimologia della parola cultura che abbastanza automaticamente è associata alle azioni del prendersi cura proprie della coltivazione. La parola, però, ha a che fare, anche se non in maniera altrettanto immediatamente riconoscibile, con un altro ambito semantico: quello dell’abitare. Da questo punto di vista, allora, bisogna riconoscere che, prima ancora di essere un soggetto educante, la scuola è un prodotto culturale che si pone al servizio di una determinata idea di persona, società, impresa e chi più ne ha, più ne metta.

Se le categorie di scuola borghese o capitalista sono inadeguate, allora, se ne possono tranquillamente utilizzare altre. Il vero problema è piuttosto quello di comprendere a quale tipo di esigenze sociali e, di conseguenza, di educazione risponda l’attuale impianto scolastico. Se lo è chiesto Baricco nella seconda puntata della sua nuova collaborazione con il Post: siamo di fronte al collasso dell’intelligenza novecentesca e, parallelamente, all’emersione di un nuovo tipo di intelligenza che si riconosce non più ferrea, fissa come il ponte Morandi, ma flessibile, aperta all’instabilità. Dopo essersi posto la domanda, con un gesto alla Marzullo, Baricco ha cercato di dare una risposta, solo che, come direbbe Quelo, “la risposta è dentro di te epperò è sbagliata”! Nelle sue parole, infatti, trapela una scarsa conoscenza del mondo scolastico, se non negli aspetti epidermici e perfino aneddotici. Avesse fatto tesoro della lezione di Veronica (zero parole, solo fatti) avrebbe scoperto che la scuola della flessibilità o dell’instabilità esiste già, non solo nei numerosi modelli didattici che stanno tentando di capovolgere la lezione tradizionale, ma perfino in quei capolavori di antilingua che sono le circolari ministeriali. Da dieci anni ormai i programmi ministeriali sono stati sostituiti dalle indicazioni nazionali che pongono al centro non più un sapere statico, ma la persona, le sue capacità e inclinazioni, le relazioni, le sue fragilità. Conseguentemente la scuola non vuole più ammucchiare conoscenze astoriche, quasi eterne come le versioni di latino che secondo Baricco ritornano sempre uguali in saecula saeculorum. La scuola guarda alle competenze «di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, l’occupabilità, l’inclusione sociale, uno stile di vita sostenibile, una vita fruttuosa in società pacifiche, una gestione della vita attenta alla salute e la cittadinanza attiva» (Raccomandazioni del consiglio europeo relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, 22 maggio 2008). Seguono la stessa logica il RAV, le prove Invalsi, le materie trasversali come l’Educazione civica, la ratio del nuovo esame di maturità (e le ordinanze ministeriali che ne hanno disciplinato la versione light durante questi due anni) e, buon ultimo, il curriculum dello studente.

Questa scuola della flessibilità e dell’instabilità è, a ben vedere, la scuola della resilienza, termine che nato per definire la capacità dei metalli di resistere agli urti esterni, è finito per diventare una categoria dello spirito con cui commentare sui social i quotidiani sforzi dell’uomo (che faccio: mangio la terza fetta di torta? No. #Resilienza), nonché la tendenza dell’estate 2021 nei peggiori tattoo shop di Caracas. Se per una forma di aridità dell’anima, si è insensibili al fascino indiscreto della parola, si può intravvedere un piccolo paradosso concettuale: la resilienza sposta l’enfasi e l’attenzione dall’oggettività dei problemi alle attitudini del soggetto. Così facendo, si corre il rischio di non cogliere più l’ingiustizia strutturale dei colpi che il soggetto deve reggere e, addirittura, che li si consideri la normalità. Da questo punto di vista, la Dad è stata una formidabile cartina di tornasole. La scuola in dad, infatti, ha certamente stimolato gli studenti verso forme di educazione alla responsabilità; tuttavia, troppo spesso questo appello alla responsabilità non solo non ha tenuto conto della progressività della crescita dello studente che rimane pur sempre un adolescente, ma è stato declinato principalmente sul versante disciplinare (collegi docenti, consigli di classe interi passati a parlare delle telecamere accese, della tendenza al cheating da parte degli studenti, del valore delle valutazioni). In mondo che, a causa della pandemia, ha visto contrarre o scomparire del tutto tutti gli spazi della relazione (le assemblee degli studenti, la ricreazione, i viaggi di istruzione, la vita sociale in genere) questo appello alla responsabilità diventa la parola-feticcio sotto cui nascondere forme di addomesticamento e sorveglianza. Che poi generano scandali come quello delle interrogazioni bendate, o le ben più gravi ansie, crisi o addirittura depressioni che in maniera sempre maggiore stanno emergendo tra gli adolescenti.

Non è uno scandalo né una novità che la scuola sia funzionale alla società. Lo è sempre stata. Ma, allo stesso tempo, accanto alla formazione di cittadini integrati e funzionali al sistema, ha sempre avuto l’ambizione di educare persone che con la propria storia e originalità (costruita su valori culturali, letterari, spirituali spesso controcorrente) fossero in grado di ripensare dialetticamente il rapporto e in definitiva le strutture della società. È questa una lezione di libertà rispetto alla cultura, alle istituzioni politiche, sociali ed economiche fatta propria da tutti i grandi educatori della storia, da Socrate a don Milani, passando per Gesù. La cui proverbiale marginalità è stata condizione di possibilità sia della contestazione delle istituzioni dell’epoca, dalla famiglia al Tempio, sia della libertà nei rapporti con l’altro che si è estrinsecata nella scandalosa prassi conviviale e in rapporti sociali tutt’altro che convenzionali. Il problema, quindi, non è il curriculum dello studente, quanto che questo costituisca l’ennesimo tassello di una tendenza che trasforma la scuola in uno strumento banalmente al servizio dei bisogni del sistema, erodendo quegli spazi di critica, confronto, conflitto e libertà che permettano di ripensare lo spazio politico come spazio e tempo di emancipazione per tutti.

 

 

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