Carròn, Cl e l’urgenza dell’agorà

In che forma deve manifestarsi la presenza dei cattolici nella società? Dalle parole della guida spirituale di Cl un'occasione di rilancio di alcuni nodi e questioni attuali da sempre
3 Maggio 2012

Negli anni passati, quando osavo criticare il modo in cui Comunione e Liberazione interpretava la necessità del cristiano di essere presente nella vita sociale e politica del paese, venivo tacciata di essere in malafede (“il credente deve dare testimonianza, e deve essere chiaramente visibile”), ingenua (“i credenti devono avere il potere, altrimenti sono destinati all’irrilevanza”), pavida (“ci vuole coraggio per stare dentro le cose del mondo”) e pure “perdente”. Per chiarezza e lealtà devo dire che guardo Cl dall’esterno e che mi ritrovo piuttosto nella visione della Chiesa e del mondo proprie dell’Azione Cattolica.

Ho molto apprezzato l’intervento del presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrón su “Repubblica” del 1 maggio. L’ho apprezzato da cittadina di questo Paese e da cittadina della Chiesa, perché fa bene vedere che c’è chi non ha paura di affrontare i problemi.

Dunque, nell’articolo intitolato “Da chi ha sbagliato un’umiliazione per Cl”, Don Carrón scrive che «se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo averlo dato». Colloca poi la sua affermazione fra due paletti, e cioè che Cl è estranea «a qualunque malversazione e non ha mai dato vita a un “sistema di potere”» e che sono «sconcertanti» le modalità con cui queste notizie vengono diffuse. Io non sono d’accordo con nessuno dei due paletti, perché è dai tempi di Craxi che Cl dà l’impressione di avere davvero puntato alla costruzione di un sistema di potere in cui politica, terzo settore, scuola e sanità sono pilastri portanti, e perché penso che i giornali devono fare il loro lavoro, che è quello di informare, e che di censure ne subiscono già troppe. Ma queste sono considerazioni a margine.

L’aspetto più interessante è che Carrón continua con una riflessione sulla presenza dei cristiani. In sostanza, scrive, l’incontro con Don Giussani ci ha fatto riscoprire la bellezza del cristianesimo, ma questo non è bastato «per renderci liberi dalla tentazione di una riuscita puramente umana». Ora spetterà ai giudici «stabilire se alcuni errori commessi da taluni costituiscano anche reati», intanto «tutto il male nostro e dei nostri amici non riesce a cancellare la passione per Cristo che l’incontro con il carisma di Don Giussani ci ha inoculato».

Anche qui ci sarebbe una nota a margine da fare, e cioè che Don Giussani sembra più importante di Cristo stesso, sembra un ingombrante mediatore che rischia di trasformarsi in unica porta d’accesso all’incontro col Figlio di Dio, ma ciò che conta è il coraggio che Carrón mostra nell’ammettere pubblicamente, su un giornale laico di ampia diffusione, che alcuni “amici” di Cl hanno fatto degli errori, e che questo deve far riflettere il movimento, perché è vero che quegli errori sono frutto di responsabilità e scelte individuali, ma è anche vero che questi “amici” erano molto apprezzati nel movimento e da esso difesi fino all’ultimo.

Altrettanto interessante è la conclusione: «dobbiamo continuamente riconoscere che “presenza” non è sinonimo di potere o di egemonia, ma di testimonianza, cioè di una diversità umana che nasce dal “potere” di Cristo di rispondere alle esigenze inesauribili del cuore dell’uomo».

Che forma debba assumere e in che modo debba manifestarsi la presenza dei cattolici nella società, e quale debba essere il suo rapporto con il potere, è un tema di cui, dalla “Lettera a Diogneto” in poi, si è sempre discusso e che ha trovato soluzioni radicalmente diverse, a volte contrastanti, nei diversi periodi storici. È un tema che probabilmente non troverà mai una risposta definitiva perché, appunto, deve fare i conti con la storia, che è evoluzione continua.

Negli ultimi anni, questo tema ha assunto connotazione particolari: dopo la morte delle ideologie, il dissolvimento della Democrazia cristiana e quindi del partito unico dei cristiani, l’articolarsi della presenza dei cattolici nel sociale e lo svilupparsi della sussidiarietà, gli anni del “progetto culturale”, le riflessioni sulla necessità che la fede non venga relegata alla sfera privata dell’esistenza individuale… Nel definire i termini della propria “presenza”, il credente non è (non dovrebbe, almeno) essere mosso tanto dal bisogno di difendere i propri diritti, la propria libertà, la propria identità, quanto dal desiderio di dare un forte apporto al bene comune e allo sviluppo della società.

Oggi da più parti si parla di poliarchia, cioè di una società dove il potere sia ripartito tra soggetti diversi, che si controbilanciano vicendevolmente. In questa poliarchia, dice ad esempio Luca Diotallevi (“L’ultima chance. Per una generazione nuova di cattolici in politica”, Rubbettino 2011), anche i cattolici possono e devono ritrovare un nuovo protagonismo, facendosi portatori di un’offerta politica. Per Luca Diotallevi è necessario cogliere l’attimo e buttarsi decisamente nell’agorà.

Ma non è possibile farlo senza trovare una risposta alla domanda: qual è la differenza cristiana nella gestione del potere, che cosa significa essere “del mondo ma non del mondo”, qui e ora? Speriamo che l’articolo di Carrón riapra la possibilità di un dibattito leale, senza che i cattolici “di potere” zittiscano sistematicamente gli altri.

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