Archiviata la campagna per la fertilità, parliamo davvero di avere figli?

La generazione dei miei genitori, mentre lottava per uscire dalla povertà, ha fatto figli. Perché pensavano al futuro
3 Settembre 2016

La giustamente criticata – e ormai fallita – campagna, lanciata dalla Ministra Beatrice Lorenzin in vista del Fertility Day, almeno un merito ce l’ha. Ed è quello di averci ricordato che oggi fare un figlio è una scelta, e dunque, in molti casi è una scelta anche non farlo. È vero che ci sono condizioni e storie individuali che portano a non poter avere figli, a volte anche a prezzo di un profondo dolore, perché invece il desiderio ci sarebbe. Ma per la maggior parte delle persone si tratta di scelte o semplicemente di seguire un andazzo diffuso (non si prende la decisione di non avere figli, ma non si prende neanche quella di averne, e il risultato finale è lo stesso).

Da dove nascono queste scelte? Negli interventi dei giorni scorsi sono state elencate molte cause: il precariato sul lavoro, la mancanza di nidi, asili e servizi di welfare gratuiti o a prezzi sostenibili, la mancanza di politiche di conciliazione casa/lavoro, la riforma che, mandando in pensione più tardi le donne, impedisce loro di esercitare il ruolo di nonne in sostegno delle giovani famiglie… Tutto questo è vero, ma non basta a spiegare il basso tasso di natalità del nostro Paese.

La scelta di non avere figli è anche una scelta culturale: nasce dai valori a cui ognuno decide improntare la propria vita.

La mia generazione – quella nata negli anni cinquanta – è venuta al mondo in famiglie che non erano ricche, né circondate di certezze. Quella dei nostri genitori è stata la generazione che ha lottato per uscire dalla povertà preesistente alla guerra e da essa rafforzata. Il benessere se lo sono conquistato, ma mentre lavoravano e cercavano di migliorare la propria condizione, hanno fatto figli. Non perché avessero tutto ciò che oggi è considerato necessario per poterli fare, ma perché pensavano che per avere un buon futuro era importante averli.

Mia madre e mio padre ne volevano molti. Io ero la seconda, e quando è nata la terza avevo più o meno un anno e mezzo. La casa era piccola, la culla serviva per la nuova arrivata e non c’era un lettino per me. Così aprivano un cassetto del cassettone, si assicuravano che fosse ben poggiato su un paio di sedie e lì allestivano il mio letto. Non sono cresciuta traumatizzata per questo.

Il passaggio tra la generazione dei miei genitori e quella dei miei figli, è che per la prima aveva la precedenza il generare, e poi il possedere. Per i secondi si direbbe che viene prima il possedere, e poi il generare.

Mancanza di mezzi economici, di welfare e di sicurezza non spiegano perché, ad esempio, le famiglie immigrate fanno più figli di quelle autoctone, pur non avendo, mediamente, un livello di vita più basso. Le donne immigrate di seconda generazione, però, non risultano altrettanto prolifere, pur vivendo spesso in condizioni migliori di quelle dei genitori. L’integrazione è anche questo: adeguarsi alla cultura prevalente, anche nel campo della maternità.

Mancanza di mezzi economici, di welfare e di sicurezza non spiegano neanche perché, se guardo alle persone che frequento e ai loro figli, constato che a parità di reddito e condizioni di vita ci sono coppie che hanno figli e coppie che non ne hanno, o ne hanno uno solo. Anzi, che spesso proprio le coppie più benestanti hanno meno figli.

Come dimenticare, del resto, i dibattiti dei decenni passati sull’aumento della popolazione mondiale e sulla necessità di rallentare la crescita demografica, a seguito dei quali era diventato quasi un luogo comune affermare che la soluzione migliore era lo sviluppo economico: dove arriva il benessere, il tasso di natalità scende.

Spero sia chiaro che faccio queste considerazioni non per colpevolizzare chi sceglie di non avere figli o per auspicare che ridiventiamo tutti poveri perché i poveri i figli li fanno. Voglio la libertà di scelta, voglio il benessere, voglio la sicurezza, voglio la possibilità di realizzarsi anche sul lavoro per me, per i miei figli, per tutti. Ma vorrei anche che riaprissimo un confronto sereno sul perché la maternità non è più considerata un valore, sul perché abbiamo paura di fare figli.

Anche la Chiesa ha una responsabilità in questo senso. Non è stata capace, in questi anni, di proporre la bellezza della maternità, la completezza di una vita che ha generato. Ha riproposto immagini polverose e retoriche delle madri, donne che rinunciano a tutto per i figli, accantonando la femminilità, la carriera, la possibilità di crescere personalmente e di godersi la vita… per annullarsi in quella degli altri. Hanno usato la “vocazione alla maternità” per relegare le donne in un ruolo subalterno, dentro e fuori la Chiesa.

È ora di dire che i figli arricchiscono la vita e la loro presenza può dare alle donne motivazioni in più per fare tutto il resto: carriera, vita politica, volontariato o quant’altro. E, naturalmente, è ora di essere coerenti e di chiedere con più convinzione tutto quanto può aiutare le famiglie a sostenere la propria responsabilità nei confronti dei figli. Non c’è modo migliore per difendere la vita che fare una battaglia per i diritti delle donne e delle famiglie.

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