Perchè se ne vanno?

Perchè se ne vanno?
7 Luglio 2016

Il 3 luglio su repubblica Simonetta Fiori scrive un articolo dal titolo: “Il dio dei millennials”, (http://80.241.231.25/Ucei/PDF/2016/2016-07-03/2016070333594670.pdf), in cui rende conto di alcune inchieste italiane, degli ultimi mesi, che tentano di delineare come i “teen ager” di oggi vivono la dimensione religiosa. In sostanza riconferma una percezione per me già ampiamente verificata. Non certo una generazione “incredula”, ma che, per quasi il 70%, ammette di coltivare un rapporto col sacro. Ma lo fa in forme assolutamente nuove e ancora non ben rintracciabili che ovviamente non sono intercettate quasi mai dalla nostra tradizionale pastorale cattolica. Fin qui, per me, nulla di nuovo.

Ciò che mi ha colpito però, è un passaggio dell’articolo. “Cosa induce un ragazzo ad allontanarsi da Dio? L’agnosticismo annida soprattutto tra i figli dei separati, «tra chi ha vissuto la rottura dei legami famigliari o la perdita della certezza affettiva», spiega Garelli. A incrinare la fede possono intervenire le fratture esistenziali, come la perdita del lavoro o una condizione precaria. Ma può incidere anche l’estraneità a una Chiesa percepita come pomposa e ingiusta gerarchia, regno del privilegio e della ricchezza e non degli ultimi”.

Ovviamente il sole di questi giorni non aiuta la riflessione. Ma parole così nette non possono certo cadere nel vuoto. E non sto parlando principalmente della terza motivazione, quella di una Chiesa che sentono estranea e incoerente. Già si scrive e si dibatte molto su questo. Sto parlando soprattutto della prima e della seconda motivazione indicate.

Di getto verrebbe da dire: ma che centrano “fratture esistenziali” e “perdita della certezza affettiva” con la perdita della fede? Mediamente, infatti, nell’immaginario pastorale cattolico le “crisi” esistenziali vengono spesso rilette e indicate come luoghi di una possibile crescita della fede, non del suo abbandono. E quando le si riconosce come rischi per la fede, lo si fa per due motivi.

Alcuni cattolici rintracciano la causa della perdita della fede nata nelle “crisi”, nell’eccesso di dolore che lì la persona vive, e che rende impossibile rintracciare in esse un senso alla vita, disabilitando così la sensatezza di credere in un Dio sensato. Altri invece si spiegano gli abbandoni della fede nati nelle “crisi”, imputando alla Chiesa la sua incapacità di offrire “senso” alla crisi stessa, cioè di non centrarsi più sulla croce di Cristo, ma di essersi corrotta con il vento della post-modernità e di avere sostituito la croce con la “gaiezza emozionale” della resurrezione, rendendo impossibile la parola del vangelo sulle “crisi”, all’uomo di oggi.

Entrambe queste spiegazioni hanno un punto in comune: l’abbandono della fede sarebbe generato dalla mancanza di senso che le “crisi” esistenziali aprono, a cui la Chiesa non sa più rispondere. Ora, da più parti ho invece la certezza che queste spiegazioni non colgono nel segno. Chi non avesse voglia di fermarsi alla sintesi della Fiori, potrebbe leggersi le interviste riportate in “Dio a modo mio” (Bichi – Bignardi) o in “Piccoli atei crescono” (Garelli) e scoprirebbe che la mancanza di senso non compare quasi mai come elemento determinante la scelta di abbandono. E’ molto più evidente invece come sia l’esperienza della mancanza di amore a far “mollare” la fede, la mancanza della percezione di essere amati gratuitamente per ciò che si è, che è indicata come elemento determinante pure dai giovani della mia diocesi che stanno iniziando a raccontarsi in un “tavolo di libero confronto” su fede e dintorni.

Se le cose stanno così allora qualche luce in più sul fenomeno degli abbandoni giovanili della fede può essere rintracciata. Il Dio che viene abbandonato dai “millennials” non è il Dio che riempie di senso una vita umana fatta di sconnessioni e buchi, un tappabuchi, necessario alla condizione “precaria” dell’uomo. Di questo glie ne frega più poco o nulla. Il Dio che viene abbandonato è invece quello che non ama più l’uomo; che nella sua inarrivabile onnipotenza si diverte a “giocare” con gli uomini al gatto col topo e da salvatore diventa persecutore dell’uomo. O che nella sua assoluta verità si impone all’uomo al di la di ogni rispetto e libertà che egli stesso ci avrebbe regalato. E allora? Non sarebbe forse giusto, cristianamente parlando, rinunciare ad un Dio così?

Ci sarebbe, quindi, molta verità nell’abbandono di una fede che chiede di credere in un Dio del genere. E perciò sarebbe del tutto fuori centro un intervento pastorale che cercasse di mantenere in questi giovani una fede in un Dio di questo genere. E semmai il loro abbandono dovrebbe farci riflettere se per caso l’immagine di Dio che noi lasciamo trasparire non sia esattamente come quello che loro cercano di mollare. Per provare a rintracciare, invece, un Dio che nella “crisi” ci condivide fino in fondo, fa sua la nostra mancanza di amore e non ci molla di un millimetro anche quando noi lo molliamo. Il che significa agire interventi pastorali in cui la preoccupazione sia solo quella di “com-patire”, cioè di stare con l’uomo della “crisi” con compassione, quella che i nostri padri chiamavano “pietas”. Si userebbero molte meno parole a sproposito e molte più lacrime a proposito.

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