Marco,la morte e i miei ragazzi

Siamo sicuri di avere ascoltato abbastanza la lezione che la morte ci consegna sul legame con la vita, con l'aldiquà? Siamo sicuri che la morte non vada pensata prima come evento naturale, per poi poterla illuminare con la fede?
5 Novembre 2011

Ero fuori casa, al cellulare con un mio amico. All’improvviso fa una pausa e poi dice: “No, mamma mia!!!”. Mi sono preso un colpo: “Cosa succede Fede?”. “Nooo… sto alla tv… Simoncelli… l’hanno preso sotto in due… Mamma mia!! E’ steso sull’asfalto immobile senza casco… Che botta, si è fatto davvero male stavolta…”. Ho pensato: “Signore no, ancora altro dolore… ma come si fa?” E quando dopo poco è arrivata la conferma, il dolore è diventato morte. E il giorno dopo, in classe, non si poteva non parlarne, perché, come ogni tanto succede, la vita si incarica di ricordarci ciò che noi cerchiamo di dimenticare. La morte.

Alla seconda ora, una seconda, turbolenta ma sveglia. Sono entrato. C’era un campanello di 6 ragazze attorno ad un banco, nel fondo. Ho cercato di osservare bene, ma non ho capito. Così ho cercato con gli occhi lo sguardo di una delle 6, e quando ha capito è venuta verso la cattedra e mi ha detto: “E’ per Marco”. “Marco chi?”. “Simoncelli, prof. La Betta è sua cugina”. Sono rimasto di sasso. Non avevo pensato che quella realtà televisiva potesse diventare reale così direttamente e nei fatti, oltre che nei significati. “Elisabetta è sua cugina cugina?”. “Si, prof. lo conosceva bene e lo aveva visto anche 15 giorni fa”. 

Ho sentito salire la tristezza e, pur non vedendola in viso, ho detto dolcemente: “Betta, come va?”. “Eh prof. come vuole che vada…” mi ha risposto tra i singhiozzi… Sono sceso dalla cattedra e l’ho raggiunta al banco e le ho messo una mano sulla testa: “Non sapevo che sei sua cugina… mi dispiace un mondo!”. “Grazie prof… posso uscire un attimo.. poi mi riprendo”. “Certo vai, noi ti aspettiamo”.

Un silenzio irreale e inusuale ci ha avvolto. Ho fatto l’appello. E mentre scorrevo i nomi ho sentito che forse valeva la pena dare voce a questo silenzio. “Di solito quando entro da voi c’è abbastanza confusione. Oggi invece è diverso. Le lacrime di Elisabetta hanno lasciato un segno ed è giusto che sia così. Anche questo vi insegna cosa vuol dire stare insieme e condividere. Ma soprattutto credo che questo silenzio sia pieno di domande e di frasi che non si dicono, perché non siamo abituati a farlo.

Non c’è neanche stato bisogno di spiegare. Sono uscite da sole e anche le emozioni che c’erano attaccate. E la discussione, senza nemmeno dirigerla, è andata di suo a infilarsi subito sulla difficoltà di parlare della morte e sulla mancanza delle parole per dirla. Martina: “Bèh io credo che non se ne parla quasi mai perché stiamo troppo bene qui e nessuno ha voglia di mettersi dei pensieri tristi. Tanto poi le cose arrivano loro da sole a darti dolore”. “No, io credo proprio che sia il rovescio invece. Non ne parliamo mai perché non siamo felici per niente, anche se non lo ammettiamo e pensare alla morte ci costringerebbe a cambiare modo di vivere, ma non vogliamo farlo”. Leonardo ci ha stupiti. Di solito è abbastanza riservato e non si espone troppo, ma si vede che dentro ha molta roba che frulla.

“Vuoi dire Leo che parlare della morte tira in ballo il senso della vita?” rilancio io. “Sì, credo sia così, prof. Adesso, perché è morto, sembra che tutte le vittorie, la bravura e le robe incredibili che faceva Simoncelli non servano più a niente, come se non avessero più senso. Se invece fosse ancora vivo tutti penserebbero che la sua vita ha un senso enorme”. “E allora -ribatte Martina- a maggior ragione non vale la pena pensare alla morte, meglio vivere senza pensarci”. “No, pensare che devi morire -ribadisce Leonardo- ti fa vivere le cose che fai senza farti troppe seghe mentali per queste, tanto poi finiranno”. “Sì, ma a me fa venire una tristezza incredibile vivere così, preferisco non pensarci!” chiude decisa Martina.

E’ un piccolo stralcio, in presa diretta. Mi è tornata in mente quando ho sentito il mio prete nell’omelia della messa del giorno dei morti: “Nessuno parla più della morte, anche perché umanamente è inspiegabile, se non c’è la fede a illuminarla”. Certo noi cattolici allunghiamo subito lo sguardo al futuro, al dopo morte, perché su quello abbiamo verità pesanti da annunciare. Ma siamo sicuri di avere ascoltato abbastanza la lezione che la morte ci consegna sul legame con la vita, con l’aldiquà? Siamo sicuri che la morte non vada pensata prima come evento naturale, per poi poterla illuminare con la fede?

Voglio dire che la discussione tra Martina e Leonardo forse dice che non è vero che solo la fede ci può illuminare il senso della morte. E che se anche noi cristiani facciamo dell’annuncio della resurrezione un alibi per non guardare in faccia il dramma che è in essa non possiamo poi lamentarci se la gente non ha parole, riti, relazioni in cui poter elaborarne il senso. Anche in parrocchia, non trovo facile uno spazio e un tempo in cui queste cose possano essere messe sul piatto sul piano naturale. Passiamo subito al soprannaturale, quando invece se c’è una cosa sicura sul piano naturale è proprio la morte di ognuno di noi.

Solo verso fine dell’ora, dopo che Elisabetta è rientrata in classe ho detto: ” Forse la morte va letta non solo legandola a ciò che sta prima, la vita, ma anche a ciò che ci sta dopo… se ci sta. Io credo che Marco Simoncelli adesso sia vivo, risorto, e prego per lui perché possa davvero essere felice come qui ha desiderato e non ha potuto”.

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