Delle diciotto classi che ho quest’anno, questa seconda è la più difficile. Certo la posizione oraria alla fine della giornata non aiuta. Il fatto che ai “meno 20” un terzo della classe sia autorizzato ad uscire per problemi di trasporto non aiuta. Il fatto che ci sia quasi la metà di ripetenti, altrettanto non aiuta. Ma tutte queste motivazioni non sono riuscite in questo quadrimestre a spiegarmi abbastanza la difficoltà di questa classe di lavorare come propongo loro. Qualcosa mi sfuggiva. Fino alla lezione ultima dove qualcosa si è rivelato.
Tirati via i banchi, sedie a semicerchio. Una di loro alla lavagna. Io in mezzo a loro. “Ragazzi, vi propongo questo piccolo gioco: dichiarate le frasi con cui di solito esprimete un sentimento di amore nei confronti di una persona, di qualsiasi ambito relazionale. Giorgia le scrive sulla lavagna e poi proveremo a trovare una classifica con un criterio che vi dirò”. Quando hanno compreso la consegna quasi tutta la classe ha messo in moto degli “atti comunicativi” di distrazione, ma non perché non gli piacesse la proposta, ma come se in questo modo cercassero di scappare di fronte a sé stessi, di fronte a quel guardarsi un po’ dentro che la consegna chiedeva. E’ dall’inizio dell’anno che fanno così. Quando possono raccontare le maschere che usano per vivere lo fanno con tranquillità; quando opto per una lezione frontale tradizionale o quando faccio fare una verifica, accettano la mia “imposizione”, anche qui come qualcosa che li tranquillizza.
Io non mi do per vinto. Con molta pazienza gratto sotto la superficie di queste “distrazioni”, fino a far uscire un po’ quello di cui hanno paura. Dopo 25 minuti di lavoro ai fianchi, piano piano hanno fatto capolino: “Prof, io non uso frasi, non esprimo mai queste cose, al massimo faccio dei gesti” (una delle due leader femminili). “Io neanche quelli, prof – aggiunge la sua compagna – sono anaffettiva – scoppiando in una risata che ha tutto il tono delle reazione difensiva rispetto a ciò che ha ammesso. “Ma no prof. – ribatte il bonazzo della classe, dopo che per venti minuti aveva evitato ogni mio sguardo e richiesta di intervento – qui nessuno dice quello che pensa davvero perché abbiamo paura dei giudizi degli altri. Quando abbiamo parlato del demonio e del male tutti avevano da dire delle robe, adesso nessuno”. In effetti il primo modulo sul male e il maligno aveva riscosso “attenzione” anche se l’impressione era che lì fosse più facile mostrare le loro maschere. Ora che gli chiedo di smascherarsi un po’, tendono a nascondersi. “Io non uso frasi dirette, anzi se devo far capire a uno che mi interessa lo insulto”. Eva lo dice seriamente, non come battuta.
Poi le frasi, finalmente arrivano. Ma la mia attenzione è presa da queste prime risposte che danno, che sono più sincere delle frasi stesse, forse dette anche per darmi ciò che chiedevo e basta. Il male si può dire tranquillamente. L’amore no, non si può esternare. Una tendenza questa che avevo già visto da qualche hanno, ma erano segnali sporadici e individuali. Qui invece, sembra ci sia un segnale, di questa tendenza, più duro e stabile e una sua condivisione sociale, almeno tra loro.
Cosa significa? Rimuggino. Forse che questa ultima generazione stia compiendo un ulteriore passo nella direzione di un “ritiro” del sé, e di un uso stabile e massiccio della dissimulazione come arma per custodire e conservare il piccolo tesoro di sentimenti che ancora sentono di avere, dall’attacco furioso e depredante della pressione sociale? O più semplicemente questa ultima generazione ha raggiunto la scomparsa del sentimento, sostituendolo con una moltiplicazione artificiale di emozioni di plastica? Oppure a dominare la loro scena interna è qualcosa più vicino al rancore, alla sensazione di essere trasparenti, per chi li doveva amare davvero, perciò parlare di amore diventa impossibile per loro?
Non so dare una risposta precisa. Certo è che una generazione che non sa, o non vuole esprimere l’amore è una generazione “perduta”, e rischia di essere una generazione “impermeabile” anche al vangelo. Mi ha molto colpito quello che una mia carissima e brava collega mi ha raccontato. Ci scambiavamo impressioni sulle nostre due classi “difficili”, per me questa e per lei un’altra seconda. “Ma lo sai Gilberto, che l’altro giorno quando sono entrata in classe ho visto uno studente per l’ennesima volta accapigliarsi con un suo compagno. Li ho fermati e ho cercato di capire. Scoperto chi dei due avesse la maggior colpa gli ho detto: Ti darei veramente un ceffone, mi fai davvero infuriare perché non cambi mai. Ma mi fai così tenerezza che ti abbraccio! E l’ho fatto, l’ho abbracciato! Lui si è stranito e mi ha detto sbalordito: “Un adulto che mi abbraccia!!??”
Ma quanto soffrono!!??