La madre, il figlio e l’omosessualità

Un video su youtube probabilmente anche un po' costruito. E il tema di una prossimità a cui sempre e comunque siamo chiamati
1 Giugno 2017

Maggio è stato un mese pieno di giorni “speciali”, di ricorrenze o di giorni dedicati a particolari occasioni per sensibilizzazioni  importanti. Tra queste, un  giorno contro l’omofobia,  il 17 maggio, nel quale è circolato in rete un video chiaramente homemade che, sinceramente, mi ha fatto riflettere particolarmente.  Molti dubbi sorgono sulla sua spontaneità, come pure l’impressione che possa essere stato costruito ad arte, anche con una resa di tale “arte” davvero scadente, a mio avviso.

 

Lo condivido però qui, perché forse può suscitare in noi qualche domanda legittima ed è certamente un documento che fotografa la comune sensibilità corrente, molte volte alimentata ormai da un massiccio intervento mediatico:

 

 

 

 

 

 

Chiaramente orchestrato dal ragazzino protagonista, che sceglie, come prassi incomprensibile per molti di noi adulti, il web come ribalta di un dialogo tanto intimo e rivelatore con la madre, urtando quasi sicuramente anche la sensibilità di molti visitatori, il video mostra un inizio dove addirittura il ragazzo (poco più che adolescente) si sistema il ciuffo ribelle come prima di un vero ciak d’autore. Il dialogo che segue, con una madre dimessa e normale e lo sfondo di una cucina quanto mai ordinaria, presentato in una sorta di filtro con sottotitoli dall’inglese, è uno scambio dal gusto un po’ melodrammatico dove egli rivela alla madre di essere gay. In itinere tra l’altro alla mamma sfugge di mano il foglio che chiaramente le funge da copione per recitare la scena.

Ora il punto non è la riuscita o meno di questo teatrino mediatico in un giorno appositamente dedicato alla tematica, quanto piuttosto il chiedersi, da cristiani, ma prima ancora da persone coscienti  e forse anche da genitori, cosa spinga un ragazzino a dichiarare in questo modo la sua omosessualità al mondo e, in seconda battuta, cosa spinga quella madre a porsi in quel modo, forse per alcuni spiazzante, ma capace di suscitare la domanda empatica in ogni altra madre che assiste: “Io avrei reagito così?”

Mi sono, personalmente, data alcune risposte. Cominciando dal figlio direi che due erano i suoi interessi: far sapere realmente chi era (in questo caso la sua tendenza sessuale) e soprattutto farlo in un modo chiaro e inconfutabile…  Sembrava sfidare, velatamente,  il suo pubblico: “ve lo dico attraverso l’accoglienza di mia madre ei suoi abbracci avvolgenti…”, se vogliamo altra fonte di imbarazzo notevole considerando l’età del ragazzo dove non è sempre facile, direi spesso impossibile, farsi abbracciare in pubblico e soprattutto davanti ai propri amici o coetanei.

Qui tutto viene bypassato così da un’alleanza madre-figlio che sembra funzionale unicamente a rivelare una verità difficile.

La madre poi, per me, risulta ancor più interessante da osservare: da subito dice che non vuole indovinare e aspetta che si esponga il figlio nella rivelazione… e poi, cosa apparentemente contraddittoria, non appena capisce la portata della verità in questione non ne minimizza il valore, ma tenta in ogni modo di attutire l’impatto e l’imbarazzo dell’esporsi da parte del ragazzo. Certamente non crea molti spazi di ascolto nei confronti del figlio, e questo potremmo leggerlo in due chiavi contrapposte: non sa ascoltare o decide che non deve farlo più di tanto. Dice parole, a mio avviso non tra le più rilevanti in questo strano contesto (“prego ogni notte che tu sia quel che vuoi essere…”) , e soprattutto, avvalorando la seconda tesi del non ascolto adottato per scelta, non permette il minimo crogiolarsi al figlio in quel “mi dispiace”, che viene sfumato per ben due volte in un abbraccio dove anche il ciuffo da attore, dall’inizio tanto scolpito, sembra assorbito sotto il riflusso dell’ala chioccia della madre. Come a dire: il tuo ciuffo symbol, la tua cura forse eccessiva che denuncia la tua verità…  tutto può essere incluso in questa nostra fusione nota che riprendiamo ora, solo per pochi istanti, funzionali a darci forza reciproca, perché c’è il pericolo di non essere più capiti dagli altri. Infatti, soprattutto, quella madre sembra non tollerare il disagio del figlio e la sua solitudine possibile di fronte al mondo o forse l’idea che il dispiacere più grande sia quello di aver deluso la sua aspettativa di genitore che vorrebbe altro.

Torna una bellissima poesia di Rilke, su Eranna, un’amica innamorata della poetessa Saffo, un’altra ragazzina, certo alla prese con un sentimento difficile da gestire come il nostro ragazzino inglese del web. Dice Rilke, da fine conoscitore dell’animo umano:

 

…. Il tuo tintinnio

m’ha gettata lontano. E non so dove sono.

Nessuno mi può portare indietro.

 

Le mie sorelle mi pensano e tessono,

la casa è piena di voci familiari.

Io sola sono a me tolta e remota

e tremo come una preghiera;

la bella dea nel mezzo dei suoi miti

ardendo vive la mia vita.

 

Tenero e delicato questo modo di descrivere il sentimento d’amore omosessuale che cresce nel cuore di questa adolescente e la rende totalmente estranea dal suo contesto anche familiare: lei è lontana, quasi tolta alla consuetudine di saper stare con se stessa, e solo il tremito di farsi preghiera d’amore le rimane come compagnia possibile. In questo la bella dea, certo la Dea Afrodite, impassibile e tutta presa dal suscitare le sue forze d’amore nei cuori, la rende fuoco d’amore che poco c’entra ormai con la sua identità precedente. Ma quanta disperazione in questa solitudine provocata da un amore tanto “diverso”!

Che la madre del web, molto probabilmente non conoscendo Rilke, abbia voluto scongiurare tutto questo, il possibile abbandono di quelle “sorelle che pensano e tessono”, ma non possono capire ormai? Se sposiamo la mia seconda ipotesi sul suo comportamento, penso di sì, soprattutto perché tenta di accorciare il tempo dello smarrimento per quel suo figlio che le è di fronte, un figlio che soffre nel sentirsi diverso e al pensiero che questo crei tanto dolore in chi ama e le sta di fronte.

Questa madre, letta così,  ha dunque qualcosa di quel Padre Misericordioso, nel Vangelo, che aspetta il figlio peccatore già sulla terrazza del suo palazzo e appena lo vede gli corre incontro e lo abbraccia senza lasciargli il tempo di dire troppe cose… e poi forse ricorda anche quel dialogo tra Gesù e la Samaritana dove è il Signore stesso a dirle chi lei sia e cosa abbia fatto e non vuole sottoporla alla fatica di doversi umiliare profondamente nel dire.  E ancora, quel dire veloce a Zaccheo di scendere perché quel giorno voleva pranzare a casa sua? Un accorciare i tempi di disagio dell’altro che sta sulle spine, da parte del Signore, nei confronti di chi soffre e gli sta davanti, un bisogno infinito di farsi prossimo e abbracciare sapendo stare lì, di fronte a una realtà più grande di tante possibili comprensioni a volte, ma che non impedisce di dire “io ci sono accanto a te, qualunque sia la tua verità o la tua scelta…”

Vorrei chiudere con le parole di un caro amico, in una sua recente riflessione su Getsemani, scritta per il Giovedì Santo di quest’anno: “Ma a Getsemani non si entra da soli. «Con loro» dice Matteo (gr. met’auton). Il secondo elemento posto in rilievo dal versetto introduttivo del testo matteano è la compagnia. È giusto, anzi è umano non entrare isolati a Getsemani. È come un diritto basilare di ogni donna e di ogni uomo non rimanere da soli nel momento della prova…” (Antonio Sichera, Getsemani 2017). C’è un Getsemani in ogni diversità sofferta, c’è una compagnia possibile in ogni fatica umana. A questa prossimità siamo chiamati, sempre e comunque! Da padri, da madri, da fratelli…

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