Giovani e Chiesa: messi “da parte” o “in pratica”?

Nella Chiesa, certamente, ci si sta impegnando sempre di più a far parlare e ascoltare i giovani, ma l'impressione è che poi sia sempre qualcun altro che ne trarrà ogni decisione pratica...
14 Ottobre 2024

34 anni. Non sono più un ventenne ma ancora non sento di essere “classificato” come adulto. Seppure al limite (stabilito intorno ai 35 anni), qualcuno direbbe che rientro ancora nella categoria “giovane”. Etichette a parte (che durano quel che durano) rimane il fatto ben più concreto che quando mi ritrovo a partecipare a riunioni o incontri soprattutto “a sfondo” ecclesiale (per motivi di lavoro, di formazione, di svago…) anche a quest’età mi capita spesso di essere il più giovane, e potrei continuare a esserlo anche con qualche anno in più… La cosa di per sé suscita sempre un sorriso quando viene fatta notare, ma allo stesso tempo offre anche qualche considerazione più amara.

 

1. Passato e presente, un rapporto sbilanciato

In particolare rimane la sensazione che il fatto di essere il più giovane spesso e volentieri implica la quasi ovvietà (certo non-detta) di non poter essere presi seriamente.

Da più parti, non lo si può negare, c’è l’intenzione di guardare al mondo giovanile, di ascoltarlo, di farlo parlare (soprattutto pensando a chi è appena entrato in questa fascia, potremmo dire agli studenti dei primi anni universitari). L’impressione, però, è che ci si fermi qui. Si raccolgono dati, esperienze, considerazioni da cui poi qualcun altro trarrà le dovute decisioni pratiche. C’è uno scollamento, nei confronti dei giovani, tra parola e azione. Ascoltiamo tutto, facciamo parlare, ma una loro eventuale azione impaurisce. Spesso le sole parole impauriscono: troppa irruenza, troppa frenesia, troppo entusiasmo, poco realismo, poca esperienza, poca diplomazia… Ci vuole ogni tanto una bella “doccia gelata” sulle passioni e le aspirazioni giovanili troppo infiammate. E così alla fine si spegne tutto.

Cosa vorrebbe dire “mettere in pratica” l’attenzione ai giovani, ovvero trasformare il “dare la parola” in “dare l’azione” ai giovani? Parlo chiaramente anche per interesse personale. I giovani sono parte del presente e insieme il suo futuro. Gli altri sono l’altra parte del presente e il suo passato (sempre più nutrito, per ragioni che ben conosciamo). Ho assistito (troppo) spesso a incontri dove a farla da padrone è stato il compromesso. Si può toccare con mano, in queste occasioni, lo sguardo burbero e accigliato del passato, che punta il dito e vuole farti sentire in colpa: “Non mi starai mettendo da parte, vero? Con tutto quello che ho fatto”. E così, all’insegna del rispetto e della riverenza, si cerca in ogni modo di creare uno spazio di convivenza tra il presente e il passato, mettendoli sullo stesso piano.

La realtà, tuttavia, è che ogni tentativo di questo tipo è sempre fallimentare, in quanto si sta parlando di due grandezze alla fine inconciliabili. Mai come in questi tempi il passato è incapace di accogliere e tutelare gli spazi e i tempi del presente, e ancor meno del futuro. Il passato c’è e ci sarà sempre, non si può e non si deve cancellare, ma dev’essere vissuto e condiviso in quanto tale. Il passato avrà sempre più argomenti nei confronti del presente. Il presente è in divenire, è inafferrabile, e ancor più lo è il futuro. Solo del passato siamo sicuri, e in questo cerchiamo sempre la più piccola consolazione, la più salda sicurezza, a fronte dell’incognita presente e futura.

 

2. La chiesa e il “peso” del passato

Eppure, il passato è come Giovanni il Battista: risponde al proprio compito, al proprio senso, proprio facendosi da parte, nel suo rimanere “dietro di noi”, statico e ormai immutabile, come solida base da cui poter partire, da cui poter fare quel balzo orientato al futuro. Il passato che pretende di “mettersi davanti”, di invadere il presente, ha fallito il proprio compito. Il passato che cerca di cambiare il presente, proprio per il suo essere inevitabilmente passato, è quanto meno ingenuo se non molto triste. Ma ciò che è ancora più triste è che tutto questo nell’ambiente ecclesiale funziona a meraviglia.

Durante la festa di Vino Nuovo (non può mancare qui un ringraziamento sincero a tutti coloro che hanno organizzato e che hanno partecipato), in uno dei tanti momenti di riflessione e condivisione, è emerso con chiarezza questo concetto: la parrocchia dev’essere ripensata tenendo conto degli anziani ma senza lasciarsi frenare dagli anziani. È questo un concetto tanto logico e all’apparenza semplice quanto assolutamente disatteso nella chiesa. Il passato, gli anziani, la mentalità di ieri sono costantemente presenti e tutelati, a discapito di tutto ciò che non è passato. A loro è lasciata l’azione; ai giovani si chiedono (forse) spunti e indicazioni, che poi però o sono inevitabilmente “da ricalibrare” (appunto per andare d’accordo col passato) o sono semplicemente accantonati.

Mi fa sorridere pensare che i giovani più “impegnati” nella realtà della chiesa siano quelli che si stanno preparando a diventare “presbiteri”, ovvero anziani. Un semplice gioco di parole, certo, ma che nasconde un intero mondo di significato. Tutto ciò che è nuovo e giovane nella chiesa è sinonimo di imperfetto, di acerbo, “agli inizi”: il neofita, il neocatecumeno, il novizio… Stati o momenti iniziali di un percorso destinato a continuare a lungo prima di arrivare a maturazione, prima di poter agire.

 

3. Luci di speranza (o meno)

Due cose mi consolano in questo panorama. La prima è una frase che ritroviamo nella Regola di san Benedetto: “Abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore” (III,3). Non lo nego: prima di fare qualsiasi intervento, mi ricordo di questa intuizione e mi sento autorizzato a parlare.

La seconda è questa: Dio non è mai stato vecchio. Ci abbiamo mai pensato? Tra tutte le situazioni in cui ci possiamo immaginare Dio, non rientra la vecchiaia. Per secoli il Padre è stato immaginato bianco, canuto e con la barba, ma in realtà l’unico volto che abbiamo incontrato e che ci è rimasto dall’esperienza di Dio in questo mondo è, prima, quello di un bambino e poi quello di un giovane, che alla fine diventa un giovane sofferente, incompreso e condannato, ma anche l’unico degno di risorgere, mentre i sommi sacerdoti e gli anziani (appunto) “mi sia lecito dirvi francamente”, prendendo in prestito le parole di Pietro, “sono morti, sepolti e la loro tomba è ancora oggi fra noi”. Spesso, però, anche in quella che dovrebbe essere la sua comunità, risuona più la voce di questi anziani che non di quel giovane… Pensiamo al sinodo: si contano gli uomini e le donne… ma quanti giovani? Diversi sono gli obiettivi e le aspettative, ma se letti con gli occhi del presente (giovane), sono briciole concesse da un passato che continua a dettare l’agenda e a soffocare il presente. Perché è questa la verità: il chrónos, lo scorrere del tempo, farà sì che sempre un nuovo presente succeda a un altro, divenuto ormai passato; ma il kairós, il senso del tempo, dipende da noi e l’unico modo affinché il presente possa davvero nascere è che il passato gli si affidi e gli consegni ciò che ha saputo fare “a suo tempo”, letteralmente, nella speranza che tutti (nel passato e nel presente) sappiano vivere con lo sguardo orientato al futuro, attratti da colui che da sempre semplicemente è.

 

4 risposte a “Giovani e Chiesa: messi “da parte” o “in pratica”?”

  1. Federico Maria Gazzoli ha detto:

    Galimberti nei primi 5 minuti di questo video spiega benissimo la questione:
    https://youtu.be/53OFBbuJi98?si=4zJQa9FN_JOijVg2

  2. STEFANO FENAROLI ha detto:

    Spiace leggere tanta cecità, che crede che il discorso sia un fatto personale e non invece nell’interesse per quella comunità cristiana che sta lentamente morendo proprio perché l’idea è questa: o ti va bene così com’è, “da uomo”, o sei un infantile in cerca di approvazione. Pazienza se poi “così com’è” sta andando a rotoli, l’importante è ascoltare solo la propria voce. Proprio come la politica, altro terreno dove i giovani forse andrebbero più ascoltati, ma no: sono solo bambini capricciosi incapaci di conflitto. Pazienza poi che, se queste sono le premesse, sono proprio i “grandi” a evitarlo il conflitto, forse perché le argomentazioni degli altri (teologiche o meno che siano) fanno troppo male al proprio ego “passato”… Va be’, noi ci proviamo comunque. Tanto tranquilli, ci saranno sempre altri giovani che dovrenno rispondere di questo presente…

  3. Luca Grasselli ha detto:

    Spiace questo genere di contrapposizione generazionale. Ci manca solo il gergo “boomer vs. generazione XYZ”. Spiace ancora di più che un uomo di 35 anni si metta a fare rivendicazioni giovanilistiche che sarebbero giustificate in un diciassettenne. E che peraltro viva come atto di coraggio il sentirsi legittimato a parlare, tanto da dover improvvisare argomentazioni motivazional-teologiche a sostegno.
    Mi chiedo se il contraltare di situazioni di sclerotizzazione sicuramente diffuse nelle nostre parrocchie, e non solo, non sia una sorta di infantilismo che prevede la benevola accondiscendenza dei “grandi”, nell’incapacità di affrontare situazioni di sano conflitto. Un articolo che, ahimé da questo punto di vista, dà da pensare.

    • Sergio Di Benedetto ha detto:

      Il fatto è che in Italia esiste ed è chiara una tensione e una sproporzione boomer vs Millenials, generazione xyz: debito pubblico, ingiustizie pensionistiche, curvatura verso gli anziani di molte agevolazioni (l’altro giorno in radio una donna anziana lamentava che i musei non siano gratis per gli anziani, mentre la povertà educativa è lampante). Questione numerica e demografica: la politica chiede consenso a chi è più numeroso. Questo è presente anche nella chiesa, e bene fa Stefano a dirlo: che futuro, che sguardo può avere un’istituzione dove il potete decisionale e di indirizzo è praticamente solo dei sessantenni? Stefano ha 35 anni, io 41, il problema è lo stesso. La sua risposta è palese rivelazione di una postura e di una ‘diffidenza’ miope. Farsi da parte è difficile, ma bisogna arrivare al conflitto? Non credo e non lo spero. Ps: in Italia si è giudicati giovani fino a 50 anni: un modo per sminuire l’altro e non dare spazio

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