Scarto, disuguaglianza, povertà. Parole conosciute, anche troppo, che risuonano con urgenza all’orecchio di chi vuole vivere la propria umanità, la propria identità civile – ma anche la propria appartenenza ecclesiale – in modo consapevole. Se andiamo a rileggere la lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco, sulla cura della ‘casa comune’, troviamo provocazioni che diventano proposte, scelte, prospettive. In sostanza, invito a una vera conversione:
“Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” (53). “Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale” (114). “Ogni aspirazione a curare e migliorare il mondo richiede di cambiare profondamente gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società” (5).
Papa Francesco ha una concezione unitaria e interconnessa del cosmo e dell’umanità: “Tutto è in relazione… La cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (70); “Ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua” (84); “Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza” (52).
Per avere voce nella vicenda sociale e politica attuale servono radici ben salde nella storia che ci ha preceduto. Molto spesso la nostra mancanza di consapevolezza, di realismo, di decisione e intenzionalità in ciò che facciamo (anche nell’educare) è frutto di una memoria carente e di una libertà che si lascia sedurre facilmente dal demone dell’immobilità. Osare parole nuove, strade nuove, gesti nuovi richiede di lasciarsi prendere da un’ispirazione che può impaurire perché non ha un obiettivo misurabile.
Le numerose ‘malattie sociali’ che abbiamo imparato a conoscere, quasi abituandoci – l’alienazione, l’allentamento dei legami interpersonali, la mercificazione dei beni, dei servizi, dei rapporti e della cultura – impongono a chi vuol vivere umanamente di inventare modi per recuperare le dimensioni perdute della nostra vita, iniziando dalla più essenziale: l’amore per la terra. Il frutto di questo ‘ritrovamento’ è quella gioia di vivere che pare smarrita. E poi l’amore della verità, il senso della giustizia, la responsabilità, la cura della democrazia, il dovere della solidarietà, l’uso dell’intelligenza. In poche parole: lo stupore.
Carlo Petrini – che si è occupato di stendere una “guida alla lettura” per l’edizione italiana dell’enciclica – scrive nel volume Terra Madre: “Noi dobbiamo imparare ad aprire la mente al non esatto – al non spiegato del tutto, al buono e al bello, concetti che non sempre possono trovare una codifica universale”. Papa Bergoglio, rifacendosi al poverello d’Assisi, afferma nella sua enciclica: “Credo che Francesco sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità… In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore” (10).
Scrive il papa: “Se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità. Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio” (63).
I poveri non possono essere un ‘argomento’, lo scarto non ci può impegnare solo in dissertazioni, la disuguaglianza non può restare ‘accanto’ a noi. Occorre più profondità, più umiltà, più interazione e integrazione con il bene che già in tanti modi è agito.
Madeleine Delbrêl usava l’avverbio ‘perdutamente’ per definire la forma della ‘passione esistenziale’, interiore e fisica allo stesso tempo, che anima la vita dei discepoli.
Oggi – mentre abbiamo la sensazione che molte cose, consuetudini e percezioni del reale si stiano perdendo, insieme a uomini e donne indifesi che vengono inghiottiti da una silenziosa catastrofe – come gente di fede dobbiamo imparare nuovamente a vivere ‘perdutamente’. Cioè perdendo ciò che ci sembra nostra proprietà per ritrovare ciò che ci viene donato, e dunque non può essere tolto o perduto o sequestrato dall’uno o dall’altro, e allargare l’orizzonte a dimensioni davvero ‘plenarie’.
È un cammino arduo e faticoso. Rispetto alla Chiesa, chiede di oltrepassare il lamento e coltivare piuttosto uno spirito profetico, slancio evangelizzatore senza pretese ma con parole limpide. Quanti decideranno di scegliere la strana ‘logica’ di Gesù, insieme a molti uomini e donne che silenziosamente, nascostamente, talvolta inconsapevolmente già lo fanno?