Parrocchia: la territorialità (forse) non è più una virtù

Oltre la parrocchia territoriale: in un tempo di mobilità e fatiche diffuse, proviamo a valorizzare la relazionalità, come ‘luogo teologico’ per vite buone e rivelazioni del Mistero.
25 Ottobre 2024

Pochi giorni fa Paola Springhetti pubblicava su questo sito una sua riflessione sul valore della territorialità per la parrocchia, la quale permetterebbe ai cristiani, sostanzialmente, di non ‘scegliersi’ solo tra simili, cercando di essere «non una comunità elettiva, ma una comunità di tutti quelli che abitano lo stesso territorio», oltre le «affinità elettive».
Idealmente, potrei anche essere d’accordo con quanto Paola sostiene. Di fatto, però, trovo che il tema della territorialità della parrocchia sia molto novecentesco e poco rispondente al contesto del tempo che viviamo.

In primo luogo, credo che il tema sia anagraficamente caratterizzato: forse chi è più maturo sente, anche per formazione ed esperienza, che la parrocchia è la comunità che insiste su un territorio particolare, con dei precisi confini (addirittura in città può accadere che svolti l’angolo e il palazzo a pochi metri dal tuo sia di un’altra parrocchia). Tuttavia, per tanti che hanno meno di 50 anni, la territorialità non rappresenta né un valore da difendere né un obiettivo da raggiungere. Poco tempo fa, a una giornata di formazione sulla parrocchia, la più giovane tra i presenti, circa sui 25 anni, ha onestamente ammesso che per lei e per i suoi coetanei i concetti di parrocchia e di ‘membri’ della parrocchia territoriale non vogliono dire praticamente nulla. A lei stava a cuore il gruppo scout, con persone provenienti da una zona molto ampia. Si tratta di un concetto, questo dell’andare oltre la territorialità, che sento ogni qual volta ascolto persone che hanno meno di 50 anni. Ed è pacifico che sia così, perché chi è giovane o di mezza età spesso vive quotidianamente un’altra dimensione, che è quella della mobilità: quasi nessuno abita nello stesso paese, quartiere o città in cui studia o lavora. Il pendolarismo è ormai da decenni un dato di fatto, ma questo si è ingigantito: per motivi diversi (Erasmus, ricerca accademica, mansioni professionali, desiderio di conoscere altre realtà) la mobilità non è più solo uno spostarsi giornaliero di pochi chilometri, ma è ormai un tassello fondamentale per chi è nato dopo gli anni ’70, per cui si passano periodi più o meno lunghi fuori dal luogo in cui si è nati o in cui si è cresciuti; anzi, molti non hanno nemmeno più la residenza nel luogo in cui sono nati, perché nel frattempo hanno cambiato diversi luoghi di vita. E lo stesso, inevitabilmente, vale per gli affetti più cari, sparsi nel mondo.
Questo implica che, oggi, un’istituzione saldamente territoriale come la parrocchia è appannaggio di anziani e bambini, ossia di coloro che per diversi motivi non sono mobili per cause professionali. Ma anche i bambini, in realtà, spesso vivono le dinamiche dei genitori e, quindi, seguono i loro spostamenti.
Ora, questo fatto della mobilità — che si può giudicare più o meno benevolmente (personalmente penso sia positivo se animato da desiderio di conoscenza e scoperta, negativo se legato a una forma di autosfruttamento o sfruttamento economico) è un dato oggettivo decisivo della nostra realtà. Senza contare poi il tema delle migrazioni, dove la mobilità riguarda enormi masse di uomini e donne, che però riescono a mantenere (per fortuna) qualche legame con i propri paesi di origine grazie, soprattutto, ai canali contemporanei di comunicazione (una telefonata non ha i tempi lunghi delle lettere, ad esempio). E tutto ciò riguarda anche il tempo libero: che sia lo sport, un hobby o la semplice cura delle amicizie non è quasi mai un tempo libero innestato su un’unica porzione di territorio.
Dunque, la territorialità, che radicherebbe le persone nel luogo in cui abitano, è un fatto che mal di adatta alle pieghe delle esistenze attuali di chi è in attività e che non risponde alle sue configurazioni.

Vi è poi un secondo fattore che mi spinge a vedere con occhio critico la territorialità parrocchiale, e riguarda i ritmi e gli stili di vita attuali, spesso frenetici, convulsi, esposti a molteplici fatiche psichiche. Già negli ambienti di lavoro e di studio ci si trova fianco a fianco con persone che non abbiamo scelto, che sono differenti da noi, con cui abbiamo poco in comune a livello valoriale, ideologico, esperienziale. Nello squadernarsi delle settimane, tra molteplici impegni, si deve tenere a bada l’aggressività altrui, educare la propria, tentare di essere accoglienti, costruire rapporti buoni anche quando le circostanze non si presentano come favorevoli.
E questo, se da una parte può rappresentare una fonte di confronto e di arricchimento, tuttavia è pure una fonte di fatica. Per questo, gli amici sono persone ‘scelte’, con cui si può ‘riposare’, ci si può mostrare per quello che si è, anche quando vi siano divergenze di vedute. E per questo tutti noi abbiamo il desiderio (e il bisogno) di luoghi di riposo, di rigenerazione, di nutrimento. Ora, a livello spirituale, la situazione non è diversa. Il quotidiano parrocchiale sa essere molto pesante, sfiancante, con dinamiche buone ma, anche, con dinamiche tossiche, soprattutto a livello relazionale. Perché, dunque, vivere anche nella comunità ecclesiale territoriale quelle varie difficoltà relazionali che generano stress e sofferenza, arrivando anche a pregiudicare un’esperienza positiva di fede? In una società che spinge al benessere spesso artificiale, possiamo ancora proporre come valore indiscutibile la fatica del territorio e dei rapporti comunitari territoriali, osservando con sospetto la ricerca di un benessere profondo e vero? Nessuno, mi pare, sotto i 50 anni, con le vite complesse che oggi ci sono, è serenamente e volontariamente disposto ad abitare lungamente un luogo se esso è generatore di sofferenza. Ma ciò, immagino, vale un po’ per tutte le età. Ciascuno cerca ambienti, relazioni, esperienze positive per sé, che possano arricchire e motivare il nostro essere cittadini del mondo, nutrendo la fede che ci permette di attraversare la città da cristiani, e ricordandoci di esserlo. Abbiamo sete, in questo XXI secolo, di incontri che aprano squarci e vie di ricostruzione, che siano capaci di illuminare e, al tempo stesso, incarnare la fede.

Allora, al criterio della territorialità, penso si potrebbe sostituire quello della relazionalità, per cui una persona cerca, appunto, ambienti in cui si possono costruire relazioni buone, in senso lato; relazioni che aiutino ad abitare il tempo con serenità e letizia, che sappiano essere feconde di vita, che possano rappresentare un sostegno nei momenti di buio, che possano stimolare alla crescita e che, nelle dinamiche della fede, possano aiutare a vivere il Vangelo con profondità e generosità; relazioni di condivisione che, senza essere ristrette ai confini della parrocchia, rappresentino istanti di rivelazione dello Spirito e costituiscano un volto accogliente e stimolante di Chiesa. In questo senso, la relazionalità diviene quasi un ‘luogo teologico’, poiché apre al bene e alla rivelazione del Mistero di Dio.

È (anche) per il suo radicamento territoriale in un’epoca di mobilità forte e di fatiche sociali generali che la parrocchia segna il passo, non rispondendo più agli uomini e alle donne, ai giovani, ai ragazzi che sono nati dopo gli anni ’70.
Si dirà: c’è il rischio dell’elitarismo nel porre come criterio di appartenenza ecclesiale quello della relazionalità. È vero, il rischio c’è. Ma tre, mi pare, sono le sottolineature da fare.
La prima è che gli amici uno li sceglie e anche Gesù ha scelto amici e discepoli; il Vangelo è un messaggio universale, ma ciascuno ha bisogno di relazioni in cui sentirsi a casa per poi aprirsi nel mondo, ossia agli spazi di lavoro, di studio, dei vari ambienti di frequenza. La qualità relazionale è un fattore decisivo nel sostenere una vita.
Secondo: gli ambienti di elezione in cui si vive la relazionalità non sono ambienti in cui si è tutti uguali, tutti identici, tutti fotocopie: ogni relazione apre alla diversità, a partire da quella di coppia. L’importante è che le differenze si integrino e si accolgano, dentro un contesto generale che sia fertile per la persona. L’importante è l’apertura, che non spinga all’autoreferenzialità e veda anche nelle molteplici sensibilità un motivo di interesse e crescita (qui sta, infatti, uno dei limiti dei movimenti ecclesiali).
Tuttavia, è importante sapere che ci sono luoghi e relazioni in cui essere consolati; è una parola ormai in disuso, oppure piegata a un mero risvolto emotivo. Invece, quanto è importante la consolazione integrale, unitaria, che abbracci la vita nella sua interezza!
Terzo: la parrocchia territoriale è, già oggi, un ambiente non universale; è, già oggi, un campione non rappresentativo, una selezione con caratteristiche proprie. Ad esempio, manca la generazione di mezzo, mancano i giovani. È un luogo sostanzialmente anziano, che offre proposte spesso per un mondo anziano, con orari e programmazioni che ricalcano una civiltà agricola o industriale; è un ambiente che ha paura a uscire da un attivismo fine a se stesso, non raramente affetto da un infantilismo spirituale perpetuo. È un ambiente che procede per inerzia, che si adagia sulle devozioni, che fatica moltissimo a leggere il contesto in cui è, che non sempre crede nel pensiero, che scambia una convivialità superficiale per legami comunitari. È, pure, un ambiente che ha dinamiche di gestione e potere che nella società non sono più vissute: pensiamo al ruolo delle donne, che magari hanno posti di responsabilità professionale ma, se va bene, in parrocchia possono gestire la catechesi dei bambini. È un ambiente che tende a correre sui binari della chiusura e dell’autoreferenzialità. Dunque, la parrocchia è già oggi costituita da un gruppo di persone con caratteristiche non rappresentative della società intera. Almeno ammettere questo sarebbe un passo avanti.

Allora, una pista di lavoro potrebbe essere quella di aprire sempre più le comunità cristiane almeno alla reciproca collaborazione, curando i molteplici carismi, verso una sovraterritorialità che custodisca la relazionalità come una risorsa e non come un pericolo.
Nella dialettica tra universale e particolare, tra parrocchia e chiesa (diocesana, universale), troppo spesso ci si è fermati al piccolo feudo da difendere. È un retaggio del passato che non ha sapore evangelico. Per parafrasare don Milani: forse la territorialità non è più una virtù.

12 risposte a “Parrocchia: la territorialità (forse) non è più una virtù”

  1. Giuseppe Gerlin ha detto:

    La parrocchia sociologica che ho conosciuto, essendo nato prima degli anni settanta, è scomparsa e finita per sempre. Pur avendo viaggiato tanto e continuando a farlo ogni giorno dell’ anno, sono pertanto affezionato alla parrocchia territoriale, non solo perché l’ho vissuta e la vivo, ma perché è quella in cui Dio mi ha posto fin dalla mia nascita a questo mondo e al suo regno. Di questa esperienza residenziale ammiro soprattutto la vocazione soprannaturale, la mia parrocchia non l’ho scelta io, ma il Signore per me e la povertà parrocchiale mi sembra evangelicamente corretta: la mia parrocchia infatti accoglie tutti, anche i miei vicini di casa che tanto mi danno fastidio.

  2. Martino Mortola ha detto:

    Paolo quando nomina le comunità cristiane da lui fondate le chiama con il nome della città e specificandone la provenienza divina. (es. “la chiesa di Dio che è in Corinto”, “la chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre” ). Al netto delle evidenti differenze tra le comunità paoline e le nostre, ricordare la dimensione cittadina (quindi anche “politica”) della fede ci aiuta a non contrapporre il criterio della affinità elettiva con quello della territorialità. La città è un territorio ben determinato, e allo stesso tempo sufficientemente grande per ospitare “cellule” più piccole che evidentemente sono costruite su base elettiva. Tali cellule sanno che per rimanere in vita non possono pensarsi scollegate dal tessuto più ampio del popolo di Dio di quella città (o del municipio nel caso delle grandi metropoli).

  3. alessandro dal bosco ha detto:

    Una volta il mio parroco, ora ottantenne, insisteva sulla presenza dei residenti alle attività promosse dalla parrocchia a cominciare dalla celebrazione eucaristica. Vedeva in questo come un obbligo per mettere frutto. ( Ubi radix Ibi salus ). Credo anch’io che ora questo sia superato e che la parrocchia a volte sia stretta, limitata, autoreferenziale e a volte un cerchio magico. E’ utile l’apertura alle collaborazioni pastorali dove chi più ha più può dare o almeno è stimolato a dare. Ci sono carismi sopiti da mettere in pista senza campanilismi. La parrocchia esiste se esistono i parrocchiani.
    Non lascerei alla parrocchia il compito che non ha di difendere il territorio e le tradizioni. Competenze delle associazioni locali a cominciare dalle pro loco e amministrazioni comunali.

  4. Lorenzo Cenati ha detto:

    Sicuramente tutti vediamo le fatiche di una parrocchia territoriale, sicuramente per molti aspetti è superata . però la parrocchia territoriale lascia in me la sana inquetudine di dovermi confrontare/scontrare/e lasciarmi cambiare da chi incontro. Altro aspetto non secondario è che “la soglia” bassa della parrocchia territoriale offre a tutti la possibilità di iniziare un cammino

  5. adriano Bregolin ha detto:

    già, così la parrocchia diventa un circolo e una confraternita. Edith Stein era rimasta colpita dal fatto che le chiese cattoliche erano aperte tutto il giorno. Chi scrive mostra di non aver mai vissuto sul territorio

  6. Alberto Farina ha detto:

    Ho goduto di questa dotta dissertazione sul rapporto fra parrocchia e territorialità e il suo superamento. Trovo però del tutto fuori luogo nell’explicit la ripresa di una nota frase di don Milani, la cui elevatezza di pensiero e l’innovazione dell’agire si collocano ben al di sopra dell’oggetto dell’intervento proposto e del modo in cui viene trattato. Mi sembra che l’autore abbia utilizzato un espediente retorico di cui non vi era bisogno e che si trasforma in un boomerang.

  7. Stefano Serenthà ha detto:

    Condivido l’analisi, ma mi chiedo se non si corra il rischio di ridurre l’appartenenza alla Chiesa all’appartenenza a tanti piccoli movimenti (perché questo diventano le comunità relazionali), utili e preziosi ma solo se, fuori, c’è un posto anche per tutti gli altri che “non fanno parte del giro”.
    Non credi che si potrebbe finire per smettere di cercare di incontrare le persone (perchè tanto io sto bene nel mio gruppo)?
    Già oggi questo è un grandissimo problema di tante associazioni, che hanno rinunciato al territorio riducendosi a piccolo movimento che cura solo la sua proposta interna.
    Se togliamo anche le parrocchie dove accoglieremo tutti quelli che non hanno (e non cercano nemmeno) una loro comunità relazionale? Chi porterà a loro la Parola?
    Non so… Dobbiamo davvero ripensare la parrocchia (oggi oggettivamente inadeguata) e il territorio (con tutti i cambiamenti che hai ben presentato), ma io li ripenserei mettendoli al centro, non emarginandoli.

    • Sergio Di Benedetto ha detto:

      Mi pare che ci possa essere il rischio, ma mi pare anche di aver provato a rispondere preventivamente nelle tre sottolineature finali dell’articolo. E comunque il rischio lo correrei: già oggi la parrocchia è, di fatto, vissuta veramente da uno sparuto gruppo di persone che si richiama a vicenda

  8. Dario Busolini ha detto:

    Anche io, da tanti anni, vado quasi sempre a messa in una chiesa diversa da quella della mia parrocchia attuale, proprio perché là ho creato delle relazioni che mi fanno stare meglio. Però esiste il rovescio della medaglia: ad esempio, per quanto possiamo essere mobili almeno in una grande città recarsi ad un incontro infrasettimanale in una chiesa che non sia vicino a casa o al luogo di lavoro può essere quasi impossibile a causa del traffico e dei tempi stressanti che viviamo, con la conseguenza evidente pure in ambito ecclesiale che nel tempo proprio quelle relazioni profonde che vorremmo mantenere si deteriorino e subentri la solitudine, dentro o fuori la parrocchia. Perciò penso che la territorialità resti un valore, magari (del resto lo si tenta di fare per la mancanza di vocazioni) rendendola più elastica con unità pastorali più ampie che possano concentrare o meglio redistribuire sul territorio quelle possibilità di relazione di cui abbiamo bisogno.

  9. Pietro Buttiglione ha detto:

    1) se si guarda all’oggi.. la Parrocchia é da buttare. MA… vogliamo farne cosa NUOVA?
    2) Oggi ci si aggrega x affinitå ( cfr gruppi e movimenti..) Ma è davvero un bene? Soprattutto è davvero il format CRISTIANO?? Vogliamo ridurci TdG o scientology …? Cfr i mov.ti Cristiani benedetti dalla CC come Ristrutturiamoci? Ma anche Opus Dei o i Legionari??
    3) guardando in prospettiva ecco che la Parrocchia cambiando faccia pelle e viscere da dispensatore di Sacramenti dovrebbe diventare il punto di raccordo delle diversità cristiane, tenere UNITE le Persone anche se la Madonna……. E magari pure io credo in Cristo anche magari solo come via x Dio… Anche solo vero Uomo…
    4) insomma fare proprio quello che il Sinodo vorrebbe fare ma nn può.. in atenato con ali mozze..😭😭

  10. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Mi sento di condividere la conclusione è cioè che la vita della persona oggi, non può definirsi legata al territorio in quanto implica fare scelte come lavoro, interessi di comunicazione, di studi se riguardanti giovani , portano a essere fuori il territorio. I legami si creano però anche dipendenti da affettività, per esempio avere un Parroco che sa crearli, e di questa esperienza ho prova, ha saputo padre Gian Mario parlare sempre col cuore alle persone e quando è andato via a ogni sua visita aveva una fila di persone desiderose di salutarlo, un dono il suo raro. Un altro, capitava di incrociarlo nel quartiere e lui salutava magari anche solo passando davanti a chi in bottega lavorava, un altro ancora diceva messa e si avvaleva qualche di un chierichetto down, insomma tutti esempi che oggi sono, sembrano o non desiderati dalla società anche diventata di un tempo diverso, più fredda o defilata dalla cultura della Chiesa, e questo anche per quel non radicarsi nel territorio!?

  11. William Dalé ha detto:

    Interessante e condivisibile. La domanda che sta sotto è questa: quale criterio guida un’esperienza di fede per le donne e gli uomini reali di oggi? È quello territoriale o quello relazionale?

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