Silenzio e solidarietà. Certo. Vicinanza e compassione, quella stessa di Gesù, di fronte a questo nuovo dramma angosciante. Certo. Aiuto concreto, visto che noi possiamo, e preghiera per tutti coloro che sono morti e che soffrono. Certo. Sono assolutamente d’accordo.
Eppure, questa volta, non riesco a tacitare una parte di me. Ci ho provato. Mi sono detto che non serve darle spazio, che tanto le risposte non ci sono. Poi mi sono ricordato che anche Giobbe ad un certo punto non ce la fa più. E dilaga: “Perisca il giorno in cui nacqui… Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore?… A un uomo la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato… Così al posto del cibo entra il mio gemito, e i mie ruggiti sgorgano come acqua…” (Gb 3, 3.20. 23-24)
E’ lecito lasciarsi sfuggire il lamento, l’angoscia, e la domanda sul senso quando 142 secondi distruggono una intera vita, intere famiglie, interi amori, interi futuri? “Quando sono scosse le fondamenta il giusto cosa può fare?” (Sl 11, 3-5) Certo silenzio, preghiera, solidarietà, compassione. Ma basta? Tutto quel dolore, quella morte e quell’angoscia davvero possono essere contenuti dentro a queste parole?
Ci sto pensando seriamente, ma più ci penso e più sento che non basta. Che il vangelo dentro ad un terremoto così, non si ferma qui. Ma forse spinge potentemente a non occultare troppo presto le domande, quelle a cui la risposta non c’è e non ci sarà: Perché? Perché adesso? Perché qui? Perché proprio quelle persone lì? E Dio? Che faceva? E’ davvero un padre? O gioca a dadi, a birilli?
Se siamo uomini interi, fratelli interi, non possiamo tacitarle dentro di noi troppo velocemente. Men che meno possiamo tenerle a bada con risposte troppo umane, come quelle degli amici di Giobbe. Perciò non possiamo non sapere che nel cuore di tutti coloro che in queste ore sono taccati da un piccolo “fremito” di due placche sulla faglia “Gloria”, che attraversa tutta l’Italia, queste domande galleggiano sul fondo come bombe ad orologeria. E dalla reazione alla loro esplosione dipenderà quanto e come cambierà il senso della vita dei superstiti, la loro fede e il loro amore, la loro non fede e il loro non amore.
Ecco perché non basta. Perché ci dovrà pur essere un luogo in cui queste domande possano esplodere, essere ascoltate col cuore, essere condivise. Un luogo in cui la ferita inguaribile di una vita spezzata possa essere accolta, senza sfuggire alla lama che ci trafigge perché l’unica cosa che possiamo dire è ancora Giobbe: “Ecco, sono ben meschino che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca” (Gb 40,4).
Ci dovrà pur essere qualcuno che sa stare con la ferita aperta dell’altro e lasciarsi ferire lui pure, senza scappare o mascherarsi. Qualcuno che abbia il coraggio di lasciare aperta la domanda e di viverla così, riportandola costantemente a Dio, senza muovere un passo per nasconderne il dolore, logorarlo o ripararlo.
Ecco, “quando le fondamenta sono scosse” il giusto si lascia scuotere e non smette di invocare Dio. Accetta di vivere le domande anche senza risposte. Non è forse con la domanda più radicale che Gesù muore, senza avere risposta (in quel momento!): “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,36).
Credo che la nostra fede ci chieda di essere quel luogo, quel qualcuno. Dalle mie parti, negli anni ’50, in una parrocchia di campagna, dopo una violenta grandinata che aveva praticamente distrutto tutto il raccolto di uva di quell’anno, il parroco, prese il crocifisso della Chiesa e lo portò in processione attraverso i filari di uva dicendogli: “Guarda! Guarda cosa hai fatto!! E adesso chi ci dà da mangiare? Non ti vergogni?” Alcuni passanti, al vedere la scena esclamarono scandalizzati: “Ma signor parroco, cosa dice??” Ma la sera, col favore del buio, suonò alla canonica uno dei capi dei comunisti locali, anticlericale nell’anima. Il parroco esclamò: “Cosa vuoi qui?” E Lui: “Vorrei confessarmi. Mi hanno raccontato quello che ha fatto oggi col crocifisso nei campi. Se il suo Dio non l’ha fulminato, vuol dire che è davvero buono. E forse potrebbe perdonare anche me”.
Me lo sto ancora chiedendo. Giobbe, alla fine del suo dialogo con Dio esclama: “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Per chi vale?