I modi di guardare alla croce

I modi di guardare alla croce
25 Luglio 2018

La redenzione, ovvero il passaggio dal peccato all’amore di Dio. Come avviene? Sembra semplice la risposta, ma in realtà esistono letture teologiche diverse, ognuna delle quali ha, come centro comune la spiegazione del perché Gesù deve morire e come sfondo differenziante, una determinata immagine del triangolo teologico dio – uomo – peccato. Provo a delinearne due, rimandandone una terza ad un secondo post.

La prima è essenzialmente connessa al tema dell’“espiazione”. Nella bibbia ha radici già nell’AT (sia nella linea sacerdotale che in quella profetica), e nel nuovo testamento si ritrova soprattutto nella lettera agli ebrei, ma non solo. La sua “vulgata popolare”, molto presente all’interno della chiesa, la descrive però in modo non sempre fedele al dato biblico. 

Il peccato dell’uomo crea uno squilibrio nel rapporto con Dio, perché a fronte del suo amore con cui ci ha creati e ci ama, noi rispondiamo con una chiusura, producendo una vita che non lo ringrazia e non lo riconosce. Perciò, se si vuole riavere la possibilità di rientrare in una posizione corretta rispetto a Dio, dobbiamo espiare il danno di questo nostro rifiuto. Ma siccome Dio è infinito, il rifiuto del suo amore ha un carattere infinito. Perciò l’uomo non è in grado di espiare un danno infinito. E Dio, quindi, eccezionalmente, sacrifica il suo Figlio che ripara al nostro posto il danno del peccato. Gesù deve morire perché il Padre lo vuole, come “capro espiatorio” per i peccati degli uomini. 

Una seconda variante di questa teoria prevede invece che l’espiazione venga fatta da Cristo nei confronti del demonio. Il ché significa che Dio patteggia col demonio la liberazione dell’uomo e il recupero della giustizia universale. Gesù deve morire perché il demonio lo vuole come espiazione sufficiente e il padre lo permette. 

In ogni caso, in entrambe le varianti “popolari” è la sofferenza in quanto tale, fino a morire, che salva gli uomini; il puro e semplice fatto di espiare soffrendo genera la redenzione. Mentre nella versione biblica è l’amore di Cristo che espia i peccati. Una differenza non da poco. Ora, al di là delle facili implicazioni “masochistiche” a cui questa lettura presta il fianco, qui il problema è l’immagine di Dio in essa nascosta e le aporie insite. Apparentemente sembra un Dio misericordioso perché offre il Figlio per noi. 

In realtà, nella prima versione, si assume un’immagine di un Dio che tende a dividersi in sé stesso, in cui Padre e Figlio vengono a trovarsi su fronti opposti: il figlio dalla parte degli uomini, per “appagare” o “comperare” un Padre assetato di giustizia e di sofferenza. Ma “se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi”(Mc 3,24). Nella seconda versione si assume un Dio limitato dalla potenza del male con cui deve scendere a patti, con rischio di arrivare a pensare che il demonio sia il Dio del male, che decide il prezzo sufficiente per liberare l’uomo e a cui il padre, quindi, deve concedere la morte del figlio. 

In entrambe, nettamente, siamo in un impronta giuridica del rapporto con Dio. La gratuità dell’offerta di sacrificare il Figlio è solo una eccezione in Dio, ma il suo normale status è quello di dare ad ognuno secondo le proprie azioni. La giustizia retributiva è il vero Dio a cui tutto il resto si inchina. Come se il peccato dell’uomo avesse costretto Dio a cambiare i suoi piani originali, e a dover scendere ad usare la misericordia per una frazione di secondo, ma per rientrare poi immediatamente in una relazione con l’uomo fondata sulla giustizia, dovuta a sé stesso o al demonio.

La radice di questa interpretazione “popolare” maggiormente fuori dalla bibbia, che non in essa, nella primitiva concezione del triangolo teologico dio – uomo – peccato. In questa idea, trasversale a tantissime religioni arcaiche, l’unica cosa che l’uomo può fare per distruggere il male è tentare in qualche modo di “rabbonire” l’ira di Dio, attraverso il sacrificio espiatorio di ciò che di più caro egli ha. 

Gli ebrei, invece, nel corso della loro storia sembrano elaborare soprattutto un altro pensiero. Dopo il diluvio, essi fanno esperienza di un rapporto con Dio che si struttura su una alleanza, e non sul tentativo di “rabbonirlo”: se il popolo si comporterà secondo la legge, Dio sarà dalla sua parte. Da qui prenderà le mosse, in area cristiana, la seconda idea di redenzione, stavolta centrata sul “riscatto”. Nella bibbia, questa linea è molto attestata, fin dall’esodo, nei profeti, e poi nel NT soprattutto in Paolo. Ma anche qui, ne esiste una “vulgata popolare” abbastanza presente nella Chiesa, non sempre fedele al dato biblico. 

Il peccato ha creato un debito, dell’uomo nei confronti di Dio, che riguarda l’esistenza stessa di Adamo, il quale resta in vita nonostante sia peccatore. Ma Adamo non può pagare questo debito, riscattarsi da solo, perché in gioco c’è la sua stessa vita che non è lui ad aver creato. Eccezionalmente però, se l’uomo accetta di stare nelle regole che Dio gli ha rivelato, Dio lo salva, lo libera dal peccato, mandando Gesù a morire per avere un pagamento adeguato del debito. Cristo deve morire per pagare il debito contratto da Adamo e così riscattarlo.

Ma a chi va pagato il debito? Sia che si dica al Padre, sia che si dica al demonio, ritorniamo alle aporie sull’immagine di Dio evidenziate prima a proposito dell’espiazione: un Dio che tende a dividersi in sé stesso, la cui essenza è la giustizia economica, stavolta, o un Dio che patteggia col demonio la liberazione dell’uomo. In ogni caso, ciò che redime il peccato in questa logica, è l’osservanza del patto, che per Dio significa dare la morte a suo Figlio per pagare il demonio o sé stesso; e per l’uomo significa stare dentro la legge. Mentre nella bibbia, questa teoria prevede che sia l’amore di Cristo che si offre come riscatto a generare la salvezza. Anche qui una differenza non piccola.

Siamo nettamente, stavolta, in una logica dello scambio. In cui vige una immagine di Dio economo della salvezza, che elargisce amore solo condizionato. “Se fai il bravo, io ti salvo”. Ancora una volta la misericordia di Dio non è la base con cui Dio opera verso l’uomo, ordinariamente, ma è una specie di benevola eccezione momentanea che Dio realizza quando sacrifica il Figlio per noi. 

Piccola postilla. Paradossalmente in entrambe le interpretazioni, la resurrezione di Cristo sembra essere marginale, quasi solo un appendice. Nella prima, quello che conta è la sofferenza espiatoria di Cristo fino alla morte, nella seconda il suo sangue versato come riscatto. Entrambe queste due logiche si concludono nella morte di Cristo. Cioè a dire che, con questo atto, la redenzione sarebbe compiuta e l’uomo liberato. Perciò, per assurdo, se Cristo non fosse risorto, queste due interpretazioni potrebbero stare in piedi ugualmente. Qualcosa non torna. Possibile che l’atto essenziale del cristianesimo, la redenzione, non ritenga rilevante l’evento fondativo e sorgivo della nostra fede, cioè la resurrezione? 

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