Quello della laicità è un tema importante per la cultura occidentale. Secoli di storia e di dibattiti filosofici, oltre che di scontri politici e guerre sui campi di battaglia, hanno prodotto un assetto non del tutto definito. A testimonianza di ciò ci sono le varie declinazioni odierne della laicità che appare ora “furiosa” o “negativa”, ora “positiva” o “pensante”. La laicità – e quindi una teologia per i laici – è una questione assai rilevante anche per la Chiesa cattolica e il cristianesimo in genere. Un tema che proviamo a sviluppare con Pietro Cognato, docente di Teologia Morale e Bioetica presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e insegnante di religione cattolica nelle scuole superiori.
Professore Cognato, in un Occidente sempre più areligioso, secolarizzato e scristianizzato che senso ha parlare di “teologia del laicato”?
La domanda sul senso di qualsiasi teologia declinata al genitivo (in questo caso del genitivo ‘laicato’) è la domanda sul senso della teologia tout court in ogni frangente storico che la comunità cristiana vive. Non c’è comunità cristiana che si possa auto-comprendere senza che essa comprenda il motivo profondo del perché esiste in quanto cristiana rispetto ad ‘altro’, ragion per cui se l’altro è il mondo oggi areligioso, secolarizzato e scristianizzato più che causare lo svuotamento di senso di una teologia del laicato ne provoca il suo ripensamento. Per teologia del laicato si possono intendere tante cose a seconda se sviluppiamo una riflessione ad «intra ecclesiae» oppure se volgiamo lo sguardo ad extra. Se diamo un’occhiata veloce alla storia di questa espressione subito ci si rende conto che a fare la differenza è sempre il modello ecclesiologico che assumiamo ovvero l’auto-comprendersi della Chiesa nella storia. Se al tempo della nascita e diffusione del monachesimo c’erano da una parte i monaci (donati totalmente a Dio) e i chierici (preposti agli uffici e alle funzioni) e dall’altra la massa dei fedeli (i quali rimanevano non solo nel mondo ma si occupavano di esso), fissando così quest’ultimi al rapporto con il mondo e con i suoi affari, diventando il semplice popolo senza nessuna esigenza particolare di sviluppare una riflessione teologica su di esso; nel medioevo con l’accomunare monaci e chierici sotto l’unica categoria di clero, si passò alla distinzione netta tra clero e laici, caratterizzata da una dottrina della gerarchia e dei suoi poteri. Parlare di clero e laici significava distinguere fra dominatori e dominati, non solo in senso religioso ma anche culturale. Il nostro linguaggio ancora ne porta i segni quando per indicare una persona che non è competente in un campo si dice che è un laico. Oggi, invece, per tornare alla domanda, possiamo dire che le cose sono assolutamente cambiate: di fronte ad un Occidente sempre più areligioso, secolarizzato e scristianizzato, la teologia del laicato non può più limitarsi a sviluppare una riflessione in termini controversiali rispetto ai chierici, per cui alla domanda: chi è il laico, si risponde ora il non-chierico, ora colui che si sostanzia di un carattere secolare, ora chi differisce essenzialmente dal sacerdozio ministeriale, ora chi non agisce e non parla in persona Christi, ora chi incarna un differente modo di partecipare al triplice ufficio (sacerdotale, profetico e regale), ma ha bisogno di ripartire dalla domanda (chi è un laico?) e lo deve fare facendosi un’altra domanda: forse che la domanda è posta in maniera sbagliata? In un contesto di diaspora culturale del cristianesimo – come si esprime qualche teologo contemporaneo – bisogna uscire dalle secche di una ecclesiologia gerarcologica vecchio stile (cosa che il Vaticano II ha già fatto in via di principio ma che ancora tocca a tutta la Chiesa portare avanti) cosicché il laico non sia un ausiliario ma un protagonista. Papa Francesco è chiarissimo nella sua esortazione apostolica Evangelium gaudium quando al n. 111 scrive che tutto il popolo di Dio annuncia il vangelo come a dire che bisogna passare da una teologia del laicato intesa come dottrina sui laici come oggetto della pastorale (per lo più risolta in termini di figure consultive e mai deliberative rispetto al clero) ad una teologia del laicato intesa come riflessione sulle potenzialità dei soggetti dell’evangelizzazione.
In merito alla teologia del laicato, in sintesi, quale contributo emerge dalle pagine del Concilio Vaticano II?
Dicevo che il Concilio ha in linea di principio archiviato un’ecclesiologia gerarcologica vecchio stile e ha inaugurato e auspicato un’ecclesiologia di comunione la cui architrave consiste nell’essere mysterium non nel senso di qualcosa di enigmatico, ma nel senso che la chiesa è sempre communio sanctorum cioè comunione dei santi perché è fondata nel progetto di Dio sul mondo. Progetto di Dio sul mondo significa realtà in equilibrio tra il visibile, concreto, istituzionale, tangibile, umano e l’invisibile, trascendente, carismatico, intangibile, divino. Questo progetto di Dio sul mondo è fare del mondo il suo popolo a partire da un popolo minuto e sparuto nel quale prima ancora di ogni differenza riguardante uffici, compiti e poteri, c’è l’unità fondamentale che abbraccia tutti i credenti. Mysterion e popolo di Dio sono le due coordinate fondamentali per intendere subito che la teologia del laicato non può più essere riflesso di un modello ecclesiologico gerarcocentrico che nutre un clericalismo ormai non più sopportabile. Le affermazioni sui laici nei documenti conciliari, dalle costituzioni Lumen gentium, Sacrosanctum concilium, Gaudium et spes, al decreto Apostolicam actuositatem, testimoniando questo cambio di rotta rispetto al passato, valorizzano i laici nella chiesa e costituiscono la base per quella teologia del laicato di cui dicevo sopra. Voglio, in particolare, evidenziare alcuni temi della costituzione Gaudium et spes, la costituzione tra le costituzioni considerata da molti studiosi la più attraversata e condizionata dal momento storico, quindi più visibilmente datata e databile rispetto al contenuto delle altre costituzioni che hanno un tenore meno contingente e più dogmatico, per mostrare invece l’intenzione innovatrice e coraggiosa dei padri conciliari proprio su un testo che si spende per presentare la chiesa nel suo rapporto con il mondo e quindi per mostrare la stessa chiesa come legata indissolubilmente al progetto di Dio in relazione al mondo, che mi sembra essere proprio la cifra che non deve mai mancare in una qualsivoglia teologia del laicato. Innanzitutto, il tema dell’autonomia delle realtà terrestri (n. 36); in secondo luogo, luce, forza spirituale e competenze da parte dei laici a cui i pastori si possono rivolgere (n. 43); in terzo luogo, giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la chiesa (n. 76). Se le mettiamo assieme: autonomia, competenza e azione politica, il tutto all’interno di una consapevolezza di essere testimoni del vangelo, ci rendiamo conto di cosa si dovrebbe sostanziare una teologia del laicato in un mondo areligioso, secolarizzato e scristianizzato.
Al numero 40 della Lumen gentium si afferma che la santità «promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano». Che valore assume questa espressione per la peculiare forma di vita dei laici credenti?
Questa affermazione per molti può essere intesa in senso colonialistico come se avessimo bisogno di essere santi per vivere una vita più umana. Da qui l’idea di una superiorità dell’essere cristiani rispetto agli altri, una sorta di asimmetria tra fede ed etica. Per evitare questo genere di lettura, dobbiamo mettere a tema un’altra dissimetria che non sempre viene percepita, che è quella, stavolta, tra etica e fede. Non è questione di cosa viene prima o di cosa sia più importante, ma di come le due dimensioni si rapportano tra loro. Se per ‘più umano’ si intende il veramente umano e per veramente umano si presuppone che l’uomo non sempre riesce ad essere umano, allora per veramente umano non può che intendersi la dimensione etica dell’agire umano. Se per santità si intende quell’inveramento dell’agire umano alla luce della Rivelazione (o secondo il progetto di Dio), per veramente umano non può che intendersi quella figura di umanità in cui il valore della persona è detto a partire dalla sua esperienza di coscienza come recita Gaudium et spes n. 16, che è il cuore della dimensione etica dell’agire umano. Allora, ecco che è l’esperienza originaria di coscienza che media la specificità dell’esperienza di fede e non viceversa. Questo significa che la peculiare forma di vita dei laici credenti (e non solo dei laici ma a maggior ragione per loro) è l’incontro con Dio laddove l’uomo è più intimo a se stesso. Potremmo dire che Dio è incontrato dall’uomo nella sua onestà ovvero in ciò che fa essere l’uomo ‘umano’. E allora sì che la santità (il riflesso nella vita della santità di Dio) non può che insufflare nella società un tenore di vita più umano. Potremmo dire ancor più chiaramente che la santità presuppone l’interpellabilità etica perché senza di essa l’uomo non sarebbe nemmeno capace di recepire il vangelo. Segue allora che se chiunque può vivere moralmente anche senza credere, nessuno può credere senza vivere moralmente. E mi sembra questa l’interpretazione migliore dell’affermazione di Lumen gentium n. 40 rispetto alla tentazione di interpretarla in termini colonialistici.
Nel suo bel volume Il Cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato (EDB 2018), Marco Vergottini sostiene l’urgenza di una riflessione teologica sui laici volta sia a superare la teologia del laicato sia a proporre una teologia della testimonianza credente nella storia. Condivide?
Condivido, innanzitutto, il tentativo di spingere in avanti la riflessione teologica, qualsiasi essa sia, se questa è al servizio di un approfondimento della natura e dell’identità del cristiano. Tuttavia, già stiamo parlando di altro. Se il tema è rispondere alla domanda cosa è il laico e chi è il laico, l’operazione di Vergottini è quella di dismettere la domanda o di demandarla forse ad altre riflessioni per convergere gli sforzi verso altre domande, e nel caso specifico sarebbero queste: chi è il cristiano e cosa si intende per cristiano oggi nel mondo. Chiedersi chi è un laico significa svolgere una riflessione all’interno di un quadro già definito di chi sarebbe un cristiano e non certo quello di cercare di chiarire il termine laico. Potremmo dire che la riflessione sul termine laico, quindi la riflessione sulla teologia del laicato, è una riflessione ad intra che cerca di offrire un indice di tutti quei gruppi di persone molto diversi tra loro ma tutti membri della chiesa con i loro impegni e compiti a diversi livelli in base alla loro vicinanza al ministero ordinato, a seconda che siano di fatto assunti a svolgere un certo ruolo all’interno delle comunità, il tentativo di Vergottini è quello di mandare in soffitta tutta questa riflessione e concentrarsi non tanto su cosa rende il battezzato nella comunità cristiana un laico e sul suo raggio d’azione, ma su cosa rende il cristiano tout court tale. È evidente che il tentativo del teologo consista in una sorta di passaggio da un discorso di specie ad un discorso di genere, da un cerchio più piccolo ad uno più grande che lo circoscrive. La testimonianza credente diventa, così, il cerchio più grande dentro il quale stanno tutti, laici e chierici, impegnati e non impegnati. È una questione di cosa vogliamo parlare e ciò non per forza deve passare dalle strettoie di un ‘superamento verso’ o di un ‘congedo da’. Credo che la teologia del laicato continui ad avere un suo valore e che la teologia della testimonianza credente non costituisca il passaggio di testimone. Azzardo a dire che se così fosse, allora perché non diciamo pure che una teologia della testimonianza credente possa servirci per superare la teologia del sacerdozio ordinato?
Da insegnante di religione cattolica da oltre vent’anni ritiene che simile insegnamento – per via della sua articolata natura – possa offrire qualche contributo alla riflessione teologica sul laicato?
Quando parlo di indice di tutti quei gruppi di persone molto diversi tra loro ma tutti membri della chiesa con i loro impegni e compiti a diversi livelli a seconda che siano di fatto assunti a svolgere un certo ruolo all’interno delle comunità, ho in testa anche i teologi laici che svolgono un ministero ecclesiale e tra questi gli insegnanti di religione cattolica (Idr) in tutte le scuole del nostro territorio nazionale. Tale questione mi sta molto a cuore perché se c’è una categoria di laici che può mostrare la contiguità tra una teologia del laicato e una teologia della testimonianza credente è proprio quella degli Idr. E questa contiguità la ritengo essere il contributo più grande alla riflessione teologica sul laicato, una sorta di allargamento di compiti di questa riflessione che la fa traghettare dalla teologia sul laicato ad una ‘teologia della laicità’. Da laico in comunità l’Idr è inviato in una nuova comunità (quella della scuola) ed è in questa condizione che può mettere in ‘essere’ incontri come quelli che si apprendono nel vangelo, una possibilità che traduce la laicità come presenza galileana dei cristiani nella società, come direbbe Theobald. In un contesto di pick-up religioso, non nel senso di un patchwork di religioni tutte diverse tra loro, ma nel senso di interpretare dal proprio punto di vista l’offerta religioso-culturale o pezzi di offerta più confacenti, in un modo del tutto inatteso l’estraneo (l’alunno) può diventare mio prossimo, stabilendo così una prossimità, che si può interpretare come rivelazione. In questa dinamica relazionale e solo in essa è possibile adorare Dio in Spirito e verità ovvero è possibile scoprire Dio anche senza citarlo esplicitamente. Uno dei metodi che l’Idr dovrebbe far proprio è quello medievale del remoto Christo: la sua fede (confessione) è così al centro della sua esistenza che non ha bisogno di essere estroflessa continuamente, tuttavia proprio perché sta al centro e costituisce il centro del suo operato, ne diviene la linfa (della sua professione). Io chiedo sempre provocatoriamente: quale chierico ha la possibilità di incontrare più di un centinaio di ragazzi a settimana? L’Idr si! Credo che la chiesa abbia più che mai bisogno oggi degli Idr perché le nuove parrocchie sono le scuole. E non lo dico perché ho in testa una visione da ancien régime, al contrario lo dico assumendo la condizione post-moderna non come un fardello, ma come chance.
Nel dibattito, mi pare, ci sia un termine fondamentale iniziale da chiarire. P. Y M.-J. Congar nel suo celeberrimo volume “Per una teologia del laicato”, nell’edizione Morcelliana del 1967, parlando della condizione del “laico” afferma: “È quella dei cristiani che si santificano nella vita secolare” (p. 22) ed il testo tratta poi diffusamente di questa condizione che i cristiani GIÀ vivono. Non si tratta di “gruppi di persone … assunti a svolgere un certo ruolo all’interno della comunità” (Cognato), né di “prendere congedo dalla teologia del laicato” (Vergottini) ma, semplicemente, di prendere consapevolezza della grande dignità di tutti i battezzati, in ogni tempo. I servizi ministeriali introdotti nella Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, credo, intendono solamente riconoscere e “promuovere” i doni sparsi tra il laicato a vantaggio sempre di tutta la comunità.
Con gratitudine agli autori e cordialità
Luciano Salvatore Rocca
Ha ragione Vergottini sul superamento della teologia del laicato a favore di una ecclesiologia che punti a superare definitivamente l’assetto gerarcologico della chiesa. In tale prospettiva è ineludibile l’esigenza di una profonda revisione dottrinale e canonistica del ministero cosiddetto ordinato. Se effettivamente si vuole combattere il clericalismo è questa la strada da percorrere. Quella della declericalizzazione per ripristinare nell’oggi della storia la dimensione di laicità che era costitutiva delle prime comunità cristiane. Ove il clero non esisteva e nessun ministero aveva caratteristiche sacrali. E, si badi bene, non è mica solo un discorso di una chiesa ad intra. Tutt’altro !
Vergottini tutta la vita.
Quanto scrive Vergottini è pacifico nell’ecclesiologia fondamentale da decenni ed è frutto maturo di Vaticano II.
Anche solo trattare di ‘teologia del laicato’ come categoria settoriale (ad intra/ad extra, in un’epoca post-cristiana, poco importa) implica una sottesa comprensione gerarcologica, una comprensione riduzionista della svolta fondamentale di Lumen Gentium.
Non a caso Cognato inizia la sua breve “digressione storica” dal V secolo e non …dal I!