Ecclesia semper reformanda, la chiesa ha sempre bisogno di riforme, in inglese potremmo dire: Church in progress. Alla dinamica del cammino (tipica del “sinodo”) preferisco qui quella edile del “cantiere”. Il senso però, alla fine, è il medesimo. Sappiamo da dove partiamo e quello che vogliamo “lasciarci alle spalle”, ma non abbiamo idea di dove vogliamo andare e di cosa ci aspetterà. Perché non provare, allora, a mettere in luci pochi, semplici (s)punti che (almeno secondo chi scrive) sono imprescindibili per immaginare il volto della chiesa di domani. Alcuni punti (tra i tanti che si potrebbero affrontare), ma detti con estrema chiarezza, senza cercare il compromesso o l’aurea mediocritas. È questa infatti la convinzione di fondo: troppo spesso la “lentezza” della chiesa è dettata dalla paura del cambiamento, camuffato in malo modo dal desiderio di unità, di pace, di concordia. Nessuno nega questo e nessuno nega che il cammino è difficile, ma senza poche, doverosi punti fermi si tratterà sempre di girare a vuoto, e a quel punto allora è anche inutile iniziare a camminare. Proviamo allora a stendere questi punti in altrettanti contributi, senza la pretesa, ovviamente, di dire cose “nuove” o finora impensate, ma semplicemente per aggiungere anche la nostra voce in un coro che in fin dei conti è tutto fuorché all’unisono e, spesso, nemmeno intonato. E proprio per questo ci sentiamo tranquilli nello scrivere certe cose, e pazienza se non verranno del tutto incontro ai grandi “direttori d’orchestra” e alla loro idea di una riforma fatta di (snervanti) piccoli passi.
Il primo punto, fondamentale, lo definirei così: la scelta. Partiamo da una facile constatazione, guardando alla chiesa al suo interno: l’età media dei fedeli (per lo più donne) è alle stelle, i giovani sono praticamente assenti e, in generale, la maggior parte dei praticanti è mossa più da “abitudine” che da fede: pensiamo ai sacramenti, la cui celebrazione, spesso, è solo il retaggio di una “formazione” catechistica dura a morire (almeno in Italia). Insomma, in questo panorama tutto si può dire tranne che ci sia una coscienza testimoniale. Il cristiano, nella maggior parte dei casi, lo è per tradizione, nel senso peggiore del termine.
Ecco, allora, il primo punto, oserei dire il più importante: essere cristiani è una scelta. Ci siamo mai domandati che, forse, diamo troppo per scontato l’essere cristiani? Ci siamo mai posti il problema che forse le persone – soprattutto i giovani ma non solo, penso ai giovani sposi, ai genitori ecc. – non sentono più il desiderio di far parte della chiesa perché nessuno gli ha mai chiesto se volevano farne parte? L’impressione è che alla dinamica della testimonianza abbiamo sostituito quella del censimento. Non ci sentiamo più tenuti a “rendere ragione” dello stare in comunità, dell’esserci della chiesa, perché semplicemente c’è un continuo e naturale “ricircolo” di persone che si alternano man mano che nascono bambini, vanno al catechismo ecc. arrivando a darla come una cosa “scontata”. Le nostre comunità, le nostre pastorali sono farcite e straripanti di proposte, di cammini, di istituzioni, di realtà pensate per una società in cui dovrebbe essere “naturale” essere cristiani. Tutti siamo cristiani. Il problema è aiutare le persone a vivere questa cristianità, ad accompagnarle nel loro cammino di fede, a dargli gli strumenti per manifestare questo credo. Ebbene, ci è mai venuto il dubbio che forse questo cammino, questo credo, questa fede non fa parte del nostro DNA, non è un dovere di tutti quelli che nascono in una certa società, non è un’ovvietà all’interno della quale comprendere “naturalmente” chiunque? Ci siamo mai interrogati sul fatto che forse la cosiddetta “vocazione” non è un obiettivo che ci poniamo in quanto cristiani ma è esattamente l’inizio del cammino cristiano (come ad esempio ci viene raccontato dai vangeli)?
La chiesa non può essere (com’è oggi!) una realtà nella quale ci si ritrova “registrati”. È una comunità alla quale si deve decidere di aderire liberamente, perché si è riconosciuto nel suo messaggio, ovvero nel Vangelo di Gesù Cristo, il senso affidabile che può dare forma alla propria vita e a cui si decide di affidarsi con gioia e libertà. Non si nasce cristiani, si decide di esserlo. Questo comporta che la chiesa deve rispondere alla domanda: ma che senso ha per la mia vita essere cristiano/a? Cosa mi “offre” Gesù Cristo che il resto del mondo non può offrirmi? Stiamo parlando di ritrovare la credibilità della chiesa, per quelli “fuori” così come per quelli “dentro”, come missione e compito della comunità cristiana tout court. È questo tutto ciò che abbiamo e dovremmo tornare a quelle prime parole di Pietro: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». Questo è quello che abbiamo e questo è quello che liberamente dobbiamo offrire affinché coloro che incontriamo liberamente possano accoglierlo.
Per parafrasare Rahner, il cristiano di domani o sarà responsabile (ovvero capace di “rendere ragione della propria fede”) o non sarà. Non viviamo in una società cristiana eppure continuiamo a pensare, a organizzare, a evangelizzare come se lo fossimo. Come se quelli che “non vengono” in chiesa fossero i cattivi. E se invece fossero semplicemente più coerenti di molti che scaldano i banchi ogni domenica? L’ipocrisia in cui sempre rischia di cadere il “buon cristiano” è sotto gli occhi di tutti in questi tempi…
Questo richiamo al singolo, alla sua vita, al senso della sua libertà, implica un lavoro serio di ripensamento della fede, della pastorale e in generale dell’immagine che la chiesa ha di sé. E se questo comporterà perdere tutti o quasi quelli che finora erano convinti di non avere altra scelta, pazienza. A Dio piacendo potrebbero tornare, ma con una consapevolezza e una gioia diverse. Perché non si sono ritrovati – Heidegger direbbe “gettati” – in una realtà che in fondo nemmeno conoscono (e in cui tanto meno credono!) ma si sentiranno davvero in una famiglia, in una comunità di persone accomunate tra loro da un amore che davvero dà forma alla loro vita e per cui davvero vale la pena dire di “essere cristiani”.
Caro Ste! Il Bastian contrario qual io sono e fui.. si attacca alla tua frase. che con_divido, ..
“essere cristiani è una scelta”
Per chiedere a me. A te. A tutti..
QUALE SCELTA??
La nostra Chiesa offre delle SCELTE?
Logica vuole che offrire della SCELTE significa essere PLURALISTA.
Lo è la nostra Chiesa?
PS. I Movimenti erano nati proprio x coprire qs. buco.. ma oggi quale è il loro appeal? E scelta ɜ tra compagni di incontri o invece oggi DEVE offrire vie teologiche DIVERSE?
INTERPRETAZIONI diverse del mondo.
E ce ne sono…
Un articolo che contiene certamente spunti interessanti, ma sicuramente – se posso dire – pecca di un atteggiamento di fondo troppo unilaterale e giudicante.
Che oggi si debba essere cristianj veramente per scelta – e non soltanto per essere censiti in qualche registro parrocchiale – è quasi un’ovvieta’, ma si sembra un po’ poco per sentirsi autorizzati a insultare chi va in chiesa oggi – e il perché è il percome riguarda lui e la sua coscienza – dicendo che va a scaldare la sedia.
Abbiamo appena dato l’ultimo saluto con tutti gli onori ad un papa passato alla storia con una frase, “chi sono io per giudicare “… vediamo di trarne qualche conseguenza ad iniziare da noi stessi.
Grazie per l’attenzione.
Gent.mo Paolo, grazie del commento. Il mio non è un giudizio (tranne per coloro che effettivamente si ritrovano in questa condizione) ma la descrizione di un dato di fatto. Che tutti siano così non l’ho detto né scritto. Ma che la nostra idea di chiesa (all’interno della quale io stesso mi colloco) e la conseguente idea di pastorale siano totalmente pensate come qualcosa di “ovvio” è evidente e nient’affatto una ovvietà. Proprio questo è il problema. Voglio sperare poi (e di nuovo mi ci metto io per primo) che qualcuno di quelli che vanno in chiesa ci vadano perché hanno fatto questa scelta, altrimenti saremmo proprio alla frutta. Ma anche questo non l’ho mai negato. Grazie!
Essere capaci di rendere ragione della propria Fede: ma per questo divenire c’è una “presentazione al Tempio”, essere portati da genitori quando nati al Battesimo, fede trasmessa, affidati alla Chiesa per una conoscenza del Dio Creatore e Signore del cielo e della Terra. In libertà di Fede dunque fino a quando è la persona adulta a farla propria assumendosi la responsabilità della testimonianza non per dovere ma libera scelta. E’ il vivere quotidiano la palestra che ci fa credibili, l’oggi perché nel domani può esserci solo la risposta di questo oggi. E non vi può essere certezza del domani perché non si conosce cosa e come sarà’. Inoltre nella Chiesa si ha da dare o non si può accedere solo a pregare, a ricevere, ma ognuno matura e ha i suoi doni a edificarla umanamente e spiritualmente come una famiglia