Una settimana senza la messa. Ed è la settimana dell’inizio di Quaresima, la settimana delle Ceneri.
Nelle nostre Diocesi (scrivo dal Veneto) tante sono le domande che si intrecciano in questi giorni, insieme alle paure che si fanno quasi palpabili.
Sullo sfondo, la provocatorietà di una scelta, solidamente motivata nella sua origine, non da tutti compresa nel suo sviluppo.
Ma perché si celebra? Perché si compiono i riti?
Si celebra perché nella vita di ogni essere umano vengono vissute e riconosciute delle esperienze dalla qualità diversa, esperienze religiose, in cui si intuisce che la propria realtà incontra, misteriosamente, una realtà ‘altra’.
La bibbia è piena di racconti che mostrano questa dinamica (solo come esempio, basti ricordare l’esperienza di Giacobbe a Betel, narrata in Gen. 35).
La realtà che si incontra, o si intuisce, non si lascia però esaurire in un concetto, non è esprimibile nel linguaggio quotidiano: «le parole bastano a descrivere realtà conoscibili con l’osservazione e la riflessione, come gli alberi e le manifestazioni della vita sociale; ma appaiono inadeguate a delineare realtà spirituali» diceva Romano Guardini. Le realtà spirituali chiedono di essere dette e vissute in modo diverso: attraverso linguaggi simbolici e azioni rituali, pratiche capaci di coinvolgere la persona umana in tutte le sue dimensioni, razionale, affettiva, corporea.
La liturgia è fatta così, risponde in modo pieno a questo bisogno umano di immergersi in un incontro con Colui che si percepisce come fondamentale, e contemporaneamente inafferrabile.
L’esito della liturgia è la santificazione dell’uomo, ossia il suo graduale, lento e meraviglioso conformarsi al progetto che Dio ha disegnato per la sua vita.
Quindi, per quanto altamente spirituale sia la rappresentazione che ci facciamo della nostra fede, essa non può nascere, crescere e mantenersi che attraverso la corporeità, i sensi, che sono da una parte veicolo della santificazione personale, dall’altra antidoto all’individualismo.
I sensi rendono la nostra persona (tutta) simile a una specie di antenna tesa verso la realtà, per comprenderla, e consentono di viverne le mille interazioni materiali e personali. Ci mettono in relazione.
Ora, cosa sta succedendo adesso che, di questa dinamica generativa, veniamo privati? È sufficiente pregare restando a casa, unirsi spiritualmente all’azione rituale, compiuta per noi ma non fisicamente con noi?
No, non è sufficiente. È una cosa buona, ma non basta. Nello stesso tempo, però, la storia ci sta dicendo che questa è un’occasione per riscoprire significati dimenticati, e farli nostri in modo pieno, proprio perché i fatti dell’attualità ci toccano negli affetti e nella carne in modo tanto profondo come, con la liturgia divenuta prassi abituale, non avveniva quasi più.
Il Coronavirus CoVid19 è la nostra cenere, quest’anno: “Ricorda che polvere sei e polvere ritornerai”; “Convertiti e credi al Vangelo”. Le due formule risuonano in modo del tutto nuovo, spiazzante. Non serve che qualcuno ci sparga sul capo la cenere dell’ulivo, residuo dalla scorsa domenica delle Palme, a farci sentire il peso e la responsabilità di questa che è e sarà sempre una verità esistenziale: siamo fragili, e lo siamo insieme. Nessuno può chiamarsi fuori da questa relazione profonda, e si scopre protagonista della salute propria e altrui, della salvezza propria e altrui. La vita è un dono da accogliere e proteggere, e non lo si può fare da soli. Da soli siamo perduti.
È un dono strano, bello e doloroso, perché destinato a passare attraverso la soglia della morte: la speranza cristiana è capace di dischiudere questa soglia sull’eternità.